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GET BACK (to the future) - Memoria (Apitchapong Weerasethakul)

Wednesday, 18 May 2022 23:14

Edipo Massi

Alla ricerca del suono perduto

 

 

La cosa che rende effettivamente unico il lavoro di Apitchapong Weerasethakul, è l’ammirabile sfiducia nel potere delle immagini. Soprattutto in ciò che si vede. Non perché lì, nel pieno dell’immagine, non risieda anche l’oggetto del desiderio, ma perché, per troppa realtà, la centralità dell’immagine stessa impedisce di vedere (e di ascoltare). Non di tutte le immagini dunque si diffida, ma di tutte quelle immediate, la massa che assale e che produce un velo che va sollevato. Per fare questo, il cineasta thailandese compie un movimento al tempo stesso immersivo e estrattivo. Si scivola ai lati all’indietro e anche sotto terra per raggiungere la massa più piccola, il grumo, il momento del coagulo, quella sospensione fantastica e non uniforme dove formicola il fantasma dell’immagine, qualcosa che per Apitchapong è portatore di verità più dell’immagine che infine emerge in superficie. Questo scavo a ritroso - primordiale e che riguarda l’inconscio - invece di allontanarlo, sostanzia e richiama alla luce il dato politico che tende a sparire fra troppe menzogne, troppe zone non più degne di significato.

Memoria (Apitchapong Weerasethakul)Memoria, forse il film di Apitchapong più sentito e a suo modo ambizioso, si porta dietro tutto questo bagaglio e si inoltra nell’esperienza di un movimento ulteriore. A partire dal titolo che, di per sé (e poi anche di fatto), considera l’immagine come un setaccio incerto e misterioso di un corpo unico passato-presente-futuro, ripercorre le tappe di quello che una volta si definiva cinema apolide. Girato in Colombia con un cast internazionale (da Tilda Swinton a Jeanne Balibar), assediato da suoni ancestrali orchidee e depositi archeologici, smarrito e smarribile fra personaggi che lentamente escono di scena e poi ritornano in altre vesti e lo stesso nome, segnato dalle ferite di una guerra civile forse mai finita, sedotto da echi tourneuriani e impreviste folate di genere addirittura shyamalaniane (la scena dell’autobus che va all’indietro) fino al prodigio surreal-fantascientifico del finale (l’immagine del futuro proveniente dal passato). Non solo, il film è accompagnato da un libro che, invece di precisarlo, ne rende più netto lo sradicamento: un tessuto di fotografie del set, diario delle riprese, materiali di ricerca, lettere, estratti del trattamento, storyboard, note di incontri e conversazioni, strane storie di sale cinematografiche passate di padre in figlio a Bogotà. Tutto questo, oltre a costituire la genesi stessa del film, è la cronaca delle scelte fatte e delle diramazioni e sembra volersi ramificare in territori non ancora esplorati.

Quando si dice fare l’esperienza di un movimento ulteriore, si intende letteralmente. Il film nasce da un’esperienza personale dolorosa. Negli ultimi anni Apitchapong è stato colpito da un disturbo del sonno, la cosiddetta Sindrome della Testa Esplosiva. Come la sua protagonista Jessica Holland, interpretata da Tilda Swinton, è stato colpito da questa sorta di allucinazione uditiva per cui prima di addormentarsi o al risveglio si percepisce un fortissimo rumore immaginario che i più riportano come lo scoppio di una bomba o un abissale rumore metallico. Questa è anche la prima scena del film da cui parte il viaggio di Jessica alla ricerca del suono perduto. L’inabissamento sonoro è il movimento in più. Forse non è neanche giusto parlare di inabissamento, ma di suono e immagine che si inseguono si richiamano e si inabissano una nell’altra come eco lontane. In certi punti vanno a infrangersi su qualche riva misteriosa, là dove lo scoppio è più assordante, ma per riverberarsi altrove e verso una dimensione sconosciuta. Quel che resta è qualcosa prima dello scoppio, un ronzio impercettibile prima che diventi schianto. Jessica sogna spesso un cane morente (lo racconta alla sorella, anch’essa misteriosamente malata di qualcosa) e poi, in altro punto del film, incrocia un cane randagio che riporta in scena il sogno. Ecco un caso di onde che si rincorrono e che sembrano condurre passato e futuro in un luogo di pura indecidibilità e, forse, di indicibilità.

L’ingegnere del suono cui Jessica si rivolge per ricreare il rumore che la assedia, per sentirlo e vederlo, oltre una certa soglia non può spingersi, la lingua dei suoni insegue l’accordo impossibile con la vita vissuta. Forse per questo anche l’ingegnere lentamente scompare dal film, entrando nel ciclo acquatico di un’esistenza in qualche modo incrinata. Il film però sembra voler cercare una via d’uscita, o meglio il punto del tempo in cui la ferita si rimargina, qualcosa che attiene insieme alla vita e al suo lato oscuro. Così Apitchapong non si limita scandagliare l’inconscio, ma persegue un’idea di immagine come emersione contemporanea di più stati di coscienza che formano altrettante linee del possibile in quel che resta della realtà. Tutto scivola, dal paesaggio urbano della prima parte Jessica finisce nella giungla, eppure sembra sempre sospesa in una zona intermedia che sprigiona a sua volta fili narrativi mentre li disperde. E davvero quando l’uomo che l’attende - un uomo diverso ma con lo stesso nome dell’ingegnere scomparso - le dice “Io ricordo tutto”, la duplice sensazione di straniamento e trasparenza che ne scaturisce ha la forza di un’ulteriore deflagrazione.

A cosa si riferisce? Cosa vuol dire ricordare tutto? Forse la risposta è nel comportamento delle immagini: se pensate a fondo sono dolorose, di un dolore che cerchi di dimenticare, eppure è questo che le rende immagini. Lavorare alla traduzione di questo sentimento, è un po’ come svegliarsi nella notte trafitti da un rumore assordante e dolce insieme (“una palla di metallo sott’acqua”) e scoprire che è immaginario. Memoria lavora piuttosto a sottrarre immagini, a mostrare il meno possibile e di questa sottrazione, di questo meno possibile, disegna la geometria opaca, il rincorrersi delle ombre. Un film che ha la lentezza e la velocità del battito cardiaco (leggo in un’intervista che Apitchapong prima delle riprese ha parlato a lungo con la Swinton del capolavoro Peter Ibbetson di Hathaway, cioè la storia di un architetto in prigione che ogni notte incontra o sogna di incontrare la sua fidanzata nel parco: è talmente preciso, che non c’è altro da aggiungere).

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