"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Lorenzo Esposito

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Brawl in Cell Block 99 (S. Craig Zahler)

Monday, 27 November 2017 10:20

Lorenzo Esposito

Il fattore etico

Al secondo film S. Craig Zahler tiene duro e resta considerabile una scoperta assoluta. Non c’è da stupirsi che sembri muoversi con velocità e come in preda a un vero e proprio fuoco realizzativo (in arrivo già il film successivo, un poliziesco con Mel Gibson, Jennifer Carpenter, Don Johnson..), né che certa compattezza e addirittura simmetria nella coppia di film diretti finora (l’esordio luminoso Bone Tomahawk e questo corrusco livido Brawl in Cell Block 99) venga scambiata per arte mimetica o, peggio, per ritorno omaggiante all’arte di genere (grindhouse). È d’altra parte l’unico modo per spiegare l’altrimenti inspiegabile. Intanto il trasporto addirittura fisico con cui Zahler sembra aver interiorizzato – nel fraseggio, nel posizionamento dell’occhio, nel modo in cui costruisce tempi e spazi – una linea che va da Howard Hawks a Don Siegel a John Carpenter (forse anche a Hill, forse anche a Joseph H. Lewis). E come lo faccia senza ergerli a funzioni filmiche esplicite (come farebbe, peraltro sicuramente con sapienza e splendore, un Tarantino, da cui, ripetiamolo, differisce completamente). No, per Zahler questi nomi e numi sono ariose e spesso violentissime circolazioni amorose che lui riduce all’osso, agendole per quello che sono, ossia la base, il fondamento, la radice del cinema americano. Non c’è bisogno per esempio di spiegare o dire più di quel che già si vede perché il mondo in cui si dipana il trapasso sacrificale di Vince Vaughn (completamente trasformato rispetto al passato – True Detective e Hacksaw Ridge a parte: calvo, con una croce tatuata sul cranio, glaciale, fatalista, malinconico, uno che ne ha viste troppe, uno che quasi implora il resto del mondo di non provocarlo perché sa cosa sarebbe capace di fare, perché sa cos’è il luogo impossibile in cui l’amore coincide con la psicosi) è chiaramente lo stesso mondo attonito e posto sotto il giogo di qualcosa di imponderabile del Carpenter di They Live (e d’altra parte all’inizio il West filmato in Bone Tomahawk mostra le medesime caratteristiche), crisi economica e disoccupazione comprese. Ecco allora questi tempi sfilacciati, sospesi, questi sguardi misteriosi da un finestrino all’altro dell’automobile, lanciati distrattamente su un junkie seduto alla fermata dell’autobus.. Sono inquadrature e nulla più, magari più lunghe del necessario, spazio vuoto e tempo svuotato, deriva interna all’immagine stessa, mentre tutto intorno il cielo illividisce e le crepe nel corso apparentemente segnato della narrazione la conducono invece e segretamente (con quale maestria) verso l’esito più grandguignolesco e insieme fatto della fredda materia d’ogni destino fatale. In questo Zahler è l’esatto contrario del grindhouse anni settanta. L’ultraviolenza del finale è nient’altro più di quel che significa narrativamente – ossia la scelta estrema di un uomo messo in una situazione estrema – senza alcun compiacimento o gratuità, rispondendo unicamente a un fattore etico. Ovviamente un’etica costretta a ripensarsi come segno fisico dell’eccesso: ma, per capirne le ragioni, basterebbe ricordare l’eloquente scena iniziale quando Vaughn/Bradley scopre il tradimento della moglie (Jennifer Carpenter) e, cosciente della rabbia che lo sta per far esplodere, la fa rientrare in casa e sfoga tutto il suo dolore distruggendo l’automobile di famiglia, scegliendo responsabilmente di non toccare la donna nemmeno con un dito; sequenza che fra l’altro permette allo spettatore di accettare la follia del medico coreano che più tardi, quando la moglie di Bradley incinta verrà fatta prigioniera, si dirà capace (è Udo Kier, grandissimo, a recapitare pazientemente il messaggio) di mutilare il feto delle braccia mentre ancora è nell’utero lasciandolo in vita e dunque di farlo nascere così, con due moncherini. L’architettura dell’immagine è a sua volta secca, plumbea, grandangolare (qualcuno, non lontano dalla verità, ha parlato di cura o istinto kubrickiani), attenta a non falsificare i fatti col montaggio, pochissimi tagli e solo quelli necessari a ricordarci che un film (o che il cinema americano che amiamo) non è fatto di cuts ma di piani (plans).

 

 

Lorenzo Esposito

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Lorenzo Esposito and Naked

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Lorenzo Esposito

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Albüm (Mehmet Can Mertoğlu)

Monday, 11 July 2016 13:32

Il film falso e quello vero

Lorenzo Esposito

Ecco un giovane regista turco, Mehmet Can Mertoğlu (Albüm), che, alle prese con la storia di una coppia che finge una gravidanza documentandola con false fotografie raccolte in un falso album di famiglia per gli amici (in realtà si tratta di nascondere che stanno adottando un bambino: quindi è tutto vero!), fa di tutto per sfuggire all’incastro didascalico fra grottesco e affresco socio-politico (dalle parti di Kaurismaki) attraverso la reinvenzione continua dello spazio casalingo e l’irruzione del fuori campo come indizi filmici di uno smarrimento collettivo (di un’intera società, anche se non c’è per fortuna alcun banale sociologismo). Non a caso il film comincia con un plan straniante in cui il mancato accoppiamento fra due mucche viene velocemente risolto con un intervento artificiale sulla femmina: nessun moralismo, è solo che la prova dell’appartenenza biologica non ha più nulla a che fare con il corpo che concepisce, può benissimo bastare il surrogato di un’immagine, e in certi casi la sola pia illusione. La teoria affabulatrice della nostra simpatica famiglia (due prodotti dell’epoca dei centri commerciali, un po’ bulimici, un po’ folli, un po’ spietati) rispecchia con certa qual pedante precisione (ma il regista è molto determinato in questo), l’idea che l’immagine non perde più tempo a verificarsi o a sedurci con un secondo livello di verità, no, semmai marca una distanza, è l’impersonale fatto persona e buono per tutte le occasioni. Da qui l’umorismo giustamente greve e cinico del film, dove gli attori sono a tal punto mascherati (ingrassati, imbruttiti, illividiti), da essere invece proprio loro stessi, in modo da raddoppiare il disincanto delle identità che è alla base del film. Di nuovo, anche Albüm risente di qualche freddezza programmatica di troppo, cui il regista cerca di opporre alcuni scatti visionari potenti e inavvertiti (vedi la sequenza del furto in casa). Ma cosa possono fare questi giovani oggi costretti, prima ancora di girare, ad almeno tre anni divisi fra pitching, statements, e soldi razzolati ovunque sia possibile (è la co-produzione, bellezza), subendo poi pressioni per il mantenimento anodino della sceneggiatura fino all’ultima scena (viene voglia di scrivere romanzi, piuttosto), quando invece ciò che davvero conta è la drammaticità con cui l’immagine, per essere vista, deve correre il rischio dell’invisibilità. Anche su questo Can Mertoğlu è chiaro: verrà il giorno, sembra dire, che anche il film che faremo sarà solo il film falso per nascondere quello vero (oppure nessuno dei due).

 

 

Otar Iosseliani

Wednesday, 13 July 2016 13:13

Un incendio visto da lontano

Lorenzo Esposito

Che l’indolenza trasformata in intensità, ovvero non esattamente il suo modo cinematografico, ma proprio l’attitudine, il carattere di Otar Iosseliani coincidano oggi con un intero mondo in via di sparizione (o peggio che è diventato normale eludere), è al contrario, e con amabile giustezza, luogo centrale da cui si dipartono i fili invisibili di un’opera che più che al filmare si addice all’ordito celato di un arazzo. L’estrema e olimpica auto-ironia riveste le pareti dell’immagine con un tessuto profondo: fare cinema significa prima di tutto cancellarne le tracce. Non sono altro che contrappassi e canti d’inverno i film certo, ma il punto è che raggiungono questa posizione alta, solo defilandosi, armeggiando, fra un capitombolo e l’altro, nei precipizi delle pratiche basse, come un’orchestra malmessa che però dona e custodisce magnifiche illusioni (soprattutto se sbaglia note e accordi), fra uno specchietto per le allodole e l’altro, l’ennesima caccia alle farfalle, l’apertura di porte magiche che scoprono giardini segreti sull’anonimo muro cittadino.

Sarà per questo che infine l’ultimo film di Iosseliani Chant d’hiver richiama così da vicino (e non solo per l’andirivieni parigino) il Cortazar di Rayuela, seppur con meno propensione alla destrutturazione, perché per Iosseliani le strutture e i loro mulinelli intestini, sono già sempre di per sé sintomo di una ricaduta positiva, o di una sparizione, o di un mancamento, gioiosamente conversando così l’invisibile con se stesso. Ma in comune certo c’è la bella possibilità, offerta su un piatto d’argento (entrambi ambiscono a fare i camerieri, così starebbero tutto il tempo in un bar) al lettore e allo spettatore, di smettere di leggere e di fare a meno di vedere. Va bene se vi attenete a quest’ordine dei capitoli, ma da questa pagina in poi inizia un altro romanzo anche per i capitoli che avete già letto. Seguite pure la deriva da immagine a immagine, perdetevi, disorientatevi, ma attenzione è possibile che il film, più che accumulando versioni, stia sottraendo varianti e invitandovi laconicamente a una forma di cecità gloriosa e goliardica.

In ogni caso per Iosseliani in particolare la domanda riguarda la fattibilità del cinema stesso, o meglio la sua consacrabilità all’incompiutezza del mondo. Non si tratta di restituirne il reticolo prodigioso e segreto di casi e casuali ricadute e sollecitazioni, ma proprio di ricostituirne punto a punto l’invisibilità che gli è propria, sottrarlo anzi a questa stessa consapevolezza di ineffabilità (soprattutto quando sempre più spesso scambiata per bulimia del tutto visibile in un sol colpo), e aiutarlo a restare esile, dinoccolato, disincantato, sconnesso. E questo vale anche per il cinema: né un’arte, né una tecnica, ma il documento di quello che sempre, quando un’immagine sembra più aderirgli e aderirci, passa invece velocemente all’inesistenza. Anzi Iosseliani non fa altro che ossessivamente cercare di trattenere l’immagine appena abbandonata nell’immagine successiva. Diceva anni fa a proposito di La chasse aux papillons (anticipando così la sequenza mirabile in Chant d’hiver della porta che si apre su un’altra dimensione in una strada qualunque di Parigi): “L’aprirsi di una porta è l’entrare in un mondo che si richiude, e dietro la porta c’è sempre un segreto. La porta è una sorta di geroglifico1”. Filmare il luogo in cui una cosa che appare, scompare... Sapere che se tutto passa, non è detto che non si possa mantenere una posizione favorevole nella girandola del consumo (che ridere il Capitale che invita al consumo, quando è proprio il consumarsi d’ogni cosa la bellezza terribile di questo mondo)…

Per restare sempre a Renoir e all’apertura delle porte, Iosseliani ha sempre rispettato la regola del gioco (dove l’unica regola è non avere regole), ma ha fatto un passo in più, obliquo come una capriola, quando ha espresso il desiderio di cancellare le tracce anche dell’inatteso colpo di vento, evocato da renoir, che giunge a mettere a soqquadro un set. Attenzione però, questo non significa incuria o imprecisione, al contrario è ricerca della massima concentrazione e intensità, laddove tuttavia si è consapevoli che anche un evento concentratissimo disperde la sua intensità nel momento stesso in cui avviene. Ecco perché nei suoi film tutto sembra il materializzarsi di una fuga, un fugarsi stesso degli avvenimenti, un accelerato dileguarsi di situazioni e personaggi proprio nel momento in cui si accumulano e si aprono a spettri ulteriori di possibilità. Che cos’è il cinema? Non c’è niente da fare, l’incendio va visto da lontano.

 

1 A. Pastor, D. Turco, S. Paba (a cura di), Conversazione con Otar Iosseliani, in Filmcritica n. 429, novembre 1992. 

 

 

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