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Frammento 53 (Federico Lodoli e Carlo Gabriele Tribbioli)

Tuesday, 23 February 2016 04:00

Divinità schiave

Donatello Fumarola

Lucido. Preciso nel suo essere sbilenco. Rigoroso. Questo strano film realizzato da un artista, Carlo Gabriele Tribbioli e da un giovane filosofo e documentarista, Federico Lodoli, ha un’idea di partenza semplice: il frammento 53 di Eraclito - Pòlemos [la guerra] è padre di tutto e re di tutti: alcuni fa divinità, altri uomini; alcuni liberi, altri schiavi. La guerra. Considerata nella sua necessità e nella sua dimensione universale, dove ogni punto è inizio e fine della stessa circonferenza (per rimanere a Eraclito) e ogni combattente carnefice e vittima della stessa guerra. Qui, in particolare, è quella che da molti anni (dagli anni ‘90 almeno, quasi continuativamente) è stata combattuta a suon di macete e di massacri in Liberia, dove i due autori del film sono andati a più riprese per incontrare il "Generale" Rambo, Joshua M. Blahyi, Carl Darlington, Aron O. Kennedy, e gli altri guerriglieri che hanno offerto la loro testimonianza raccontando quanto hanno vissuto, da una parte e dall’altra, durante il periodo 2011-2014. Tanto è particolare la natura del conflitto raccontato da chi ha tagliato teste, teso imboscate, bruciato villaggi, combattuto in quel lembo di terra, tanto svanisce il peso della particolarità dissolvendosi e espandendosi in ogni altra particolarità, nel racconto filosofico (di stile platonico), nel mito. Polemos...

Qui non si tratta di andare a cercare l’esotismo del Cattivo (o il suo facile paradosso), come per esempio nei film di Joshua Oppenheimer, che non rischiano nulla e capitalizzano al massimo la forza (esotica - esogena) del soggetto scelto, facendo il loro spettacolino grazie al sangue versato e soprattutto grazie a chi lo ha fatto versare. In Frammento 53, al contrario, non c’è nessuna prurigine morale (né in un senso, né nel suo contrario), talmente è dentro la cosa, e al di là di ogni esotismo, davanti o dietro la camera. Frammento 53 fa sua l’astrazione che è propria delle immagini, e a suo modo tratta le parole (presenti quasi in forma aforistica) come immagini. Fa capire che lo sono senza ambiguità. E non volendo persuadere rinuncia alla retorica. È un film piuttosto neutro, in questo senso. Quel Neutro che manca alla lingua italiana, ad esempio, svanito col Latino, che ha fatto sí che restasse una opposizione binaria (quindi chiusa) a dominare tutto. Le sue qualità comunque (quelle del Neutro) muovono questo film dal profondo, dando l’idea che lo spazio dietro la camera sia molto più grande di quello davanti. È un film ossessivo, in cui si sente la forza dell’ossessione. Ed è bello quando si lascia andare, quando la tensione si spegne nei fuochi della festa, quando a un tratto il cinema si libera delle parole, divinità schiave. Lì, forse, inizia un altro film.

 

 

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