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Vejo Calavera (Kiro Russo)

Monday, 21 November 2016 10:14

Operai ubriachi nella caverna

Edipo Massi

Kiro Russo è uno di quei casi di filmmakers non giudicabili solo sul piano dei risultati – potenti quanto l’oscurità da cui traggono ispirazione – visibili, ma da inquadrare in una sorta di istantanea biografica che precede il film. L’idea stessa di cinema non è separabile dal punto in cui Kiro Russo giunge quasi casualmente in un luogo e ne viene travolto, risucchiato, per cui l’intenzione di cambiare le sorti del mondo o di fare un film coincidono fra loro e col tema principale dell’essere in lotta con la realtà prima ancora e indipendentemente dal filmarla. Ancor di più poi se la realtà in questione è una sua versione alcolica stordita fluttuante avvelenata fra altipiani stellati e tunnel minerari. Russo, insieme al suo operatore (e co-montatore e co-produttore) Pablo Paniagua, va dunque considerato a partire dal momento in cui, per questo suo esordio al lungometraggio, giunge in una lontana zona della Bolivia operaia (la pericolosa città di Huanuni) con l’unica intenzione di esplorare in prima persona l’endemico problema dell’alcolismo che affligge la madrepatria, e tra i fumi e fiumi d’alcol scorge d’improvviso i suoi personaggi, gli operai in carne e ossa, geniali attori non professionisti del film futuro, e si decide a guardarli con i loro stessi occhi, come li guarderebbe un giovane alcolizzato cui viene chiesto di prendere il posto in miniera del padre appena scomparso, assegnandosi (e assegnandoci) così la soggettiva disperata, fatta di dedizione violenza alterazione, che pure scova umanità fra le macerie. Solo a questo punto ha senso parlare di Vejo calavera (grido onomatopeico deflagrato nelle profondità della terra con cui gli operai si chiamano l’un l’altro), che di tale richiamo degli abissi è solo la scivolosa superficie, lo specchio che dall’alto invita al tuffo (banalmente, il film). Laggiù invece la vista offuscata dall’eterea e continua assunzione alcolica, genera il viaggio dark nelle viscere del pianeta (Russo ha l’intelligenza e lo spunto per fare anche della tipicità del film minerario – macchine che pompano, labirinti di tunnel, voragini senza fondo - un terminale visionario dell’assuefazione generalizzata), inventando l’inedita forma di una resistenza liquida, nichilista che sembra tuttavia indicare una nuova strada per dignità e solidarietà perdute (risalendo ancora più in superficie ci sarebbe la realtà – quella che comunemente chiamiamo realtà – delle rivolte operaie boliviane viste nei mesi passati sugli schermi). Propriamente e impropriamente si è parlato di neorealismo, e ovviamente l’appropriatezza vale solo per il discorso liquido e di notturna distorsione con cui Russo fa della luce delle tenebre una conquista rivoluzionaria, generando uno spazio politico che a sua volta fa coincidere la mappa del territorio con l’estrazione di ciò che resta dell’umano, goccia dopo goccia, barcollio dopo barcollio. I margini si piegano, ma è nella piega che raschiano umanità e alzano barricate per battaglie future. Certo, nessuna soluzione all’orizzonte, gli operai entrando in miniera offrono un sacrifico alcolico al male che si annida nei buchi della terra ostile, consci forse solo dell’immane vacuità (fatica e morti sul campo comprese) dello scavo. E la notte avanza ininterrotta e diffusa, come un secondo tremendo allagamento dell’occhio, varcando la soglia di qualche bellezza nel buio della caverna, dove anche il cinema è appena l’ultima cosa.

 

 

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