"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Nato a Roma nel 1968 si occupa di bla, bla, bla. Collabora con Skillweb, Lynx e altre società nel campo delle nuove tecnologie di comunicazione.
Appassionato di fotografia, montagna, ecologia e libertà, ASR, subbuteo e bicicletta, grafico e webmaster spesso per lavoro, spesso per piacere.
Tra le sue opere più importanti
Per Tsukamoto l’erotismo – più volte dichiarato e sempre anelato – nasce e rinasce da un eccesso anatomico che è al tempo stesso un’apocalisse di spettri, forse il loro affollamento definitivo. Tutto è metallico certo, ma solo se e in quanto rivolto all’interno, con una foga paurosa si guarda dentro se stessi scavando nell’anima, anzi alla ricerca dell’anima. Non potendo o non volendo sapere se si muove nell’ombra o nella luce, lo spettro (e il fuori fuoco) coincidono con la mutazione stessa, e coinvolgono tutto: corpo umano e cinepresa. Perciò in Hokage tutta la prima parte del film è chiusa in un antro sordido sudato violento, l’interno prelude all’uscita nella luce abbacinante e agghiacciante del Giappone ridotto in macerie. L’aria sembra fatta di una materia sottilissima che strozza: Pioggia nera + Germania anno zero, Imamura + Rossellini, senza giri di parole. La bomba è ormai parte dell’atmosfera, ma in qualche modo viene generata da altre profondità, forse è l’anima stessa dell’immagine. Così il bambino di Tsukamoto, la sua versione dell’Edmund di Rossellini, invece di lasciarsi cadere da un palazzo sventrato, svanisce nel fuori fuoco, risucchiato nel vociare sordo di un mercato post-atomico. La ragazza e il soldato invece, sono davvero la prostituta e il fantasma, e lo spettro assume un’ultima carnalità in quanto probabilmente pura proiezione dell’inconscio o lucida follia della ragazza. Ma ciò che crede e ha bisogno di vedere lei è di fatto ciò che crede e ha bisogno di vedere lo spettatore: questo è il vero sogno di Tsukamoto, appiccare il fuoco alle ombre e trasformare tutti gli spettatori in spettri.
Che? La domanda del 1972, titolo geniale con l’idea di filmare una deriva erotica assoluta e le mostruosità dell’italietta più guascona e imbelle, torna come un coltello nell’acqua (via Skolimovski e sognando sempre Gombrowicz) nella ben poco neutrale Svizzera 1999 per raccontare l’apocalisse di nome Europa (e, fra gli altri e le altre, torna Sidney Rome, allora sempre nuda e qui denudata con quel ghigno acido che però in Polanski è anche pura tenerezza; e chissà, fosse ancora vivo il Mastroianni di Che?, se sarebbe stato al posto di questo Mickey Rourke che più flagrante non si può). The Palace è il capolavoro di tutte le fini e di tutti gli inizi millennio, la risata cinica e amara, la lucidità e l’autocritica, uno dei set più visionari mai visti. Polanski resta inarrestabile come i suoi film: nulla di più politico, nulla di più cinematografico. E perdutamente kafkiano a cent’anni dalla scomparsa di Kafka, di cui qui vediamo il lato più rocambolesco e acido, quello meno conosciuto e riconosciuto, ma talmente cristallino è il richiamo all’Hotel Occidental di America (che nome questo hotel di Kafka! Strano non sia venuto in mente questo titolo a Polanski e Skolimowski). Il congegno kafkiano d’altra parte è tale perché tutto spostato sulle spalle dello spettatore, che guarda il film come Kafka davanti al superiore dell’Istituto di assicurazioni per cui era impiegato che gli comunica la promozione e lui non può smettere di ridere sguaiatamente e nervosamente. La piccolezza del tutto documentata da chi preferirebbe essere piccolo e svanire nel nulla. L’esatto contrario del cinema e dell’Europa che siamo costretti a vedere oggi.
(una versione più breve di questa nota è stata pubblicata su il manifesto del 05/10/2023)