"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Nato a Roma nel 1968 si occupa di bla, bla, bla. Collabora con Skillweb, Lynx e altre società nel campo delle nuove tecnologie di comunicazione.
Appassionato di fotografia, montagna, ecologia e libertà, ASR, subbuteo e bicicletta, grafico e webmaster spesso per lavoro, spesso per piacere.
Tra le sue opere più importanti
Beröringen (titolo inglese The Touch, titolo italiano L’adultera, anno 1971) è il film più segreto e incompiuto e tanto cruciale quanto volutamente sotto tono di Ingmar Bergman. Una ballata triste e romantica d’autunno. Un autunno infinito, senza sinfonia, senza più stagioni prima o dopo, solo un manto di foglie livide e infuocate insieme che scendono lente a terra. Fra di loro ce n’è una più resistente delle altre, più pura, l’unica che crede alla sua stagione, che non ha paura di credere in qualcosa, che sa cosa è un inizio e cosa una fine. Ha il volto serio e dolce la foglia Bibi Andersson, l’attrice forse più vicina a calibrare l’incalibrabile squilibrio tra il lavoro mimetico e di denudamento dell’attore. Posso vedere una foto di sua moglie nuda, dice Elliot Gould a Max Von Sydow. Ma non c’è bisogno di chiedere. Guarda. Guardati. Lei ci prova a spiegartelo, con tutte le sue forze, ma tu non ti sposti di un millimetro. Voi non vi spostate di un millimetro. Voi che accusate lei di non saper prendere decisioni, lei che le ha prese tutte per prima e subito con quel suo talento assoluto e insuperato di depotenziare anche questa forza evidente, quest’occhio che vede dove agli altri non è permesso, ma senza voler dimostrare nulla, cancellando ogni passo, attaccata spasmodicamente alla purezza che le è propria per istinto, e quasi senza darsene a vedere. Un vera musa. Più di altre con cui Bergman ha lavorato a fondo. Quella che incarnava qualcosa che forse neppure lui, se non raramente, ha raggiunto, ma che intuiva fosse lì, dentro quegli occhi e quel volto che, col minimo movimento, lavorato allo stremo e insieme completamente inavvertito, ne rilancivano decine, centinaia.
Il “baby killer” partorito dalla fantasia radicale di Larry Cohen - piuttosto ben impastata ai crimini del capitalismo e dell’imperialismo reali che tutta la sua opera svela, indignata - nella famosa trilogia ispirata, a dieci anni dai fatti, agli effetti mostruosi del farmaco tedesco talidomide e ai 1500 casi di bambini nati deformi, è a metà tra le icone horror di origine umana, o postumana - Dracula, il mostro di Frankenstein, lo zombie o la stirpe dei dannati - e quelle di origine animale come il licantropo, il Gremlin, Godzilla e King Kong, modificati e ottimizzati da esperimenti scientifici o stregoneschi o astrologici o marziani.
Nella zona twilight dell’adolescenza, dove parte light e parte dark, sensualità vampiresca soft e erotismo animale hard si incontrano e si scontrano con maggiore passione, la sensibilità, e la concentrazione di potenza metamorfica, è massima, come ci ha ben dimostrato Kristen Stewart. Crescere è controllare gli istinti di morte e le aggressività ferine istintive, attivate per la sopravvivenza. I nipotini di Twilight sono le sardine di oggi. Lo strettissimo contatto fisico della moltitudine festiva senza leader né sessi dominanti è già la rivoluzione.
Ma qui, in It’s alive (1973), It’s live again (1978) e It’s Alive III: Island of the Alive (1986), siamo alla nascita, crescita e sconfitta della soggettività desiderante sessantottina.
Alle scaturigini della adolescenza, nell'infanzia primordiale della rivoluzione, nell'era auspicata dell’Acquario e il baby killer va verso la vita altra e non verso una morte identica. Non è apocalittico. Non è integrato. Avrà bisogno certo di acido o funghetto lisergico come antidoto minimo per purificare il suo corpo dagli esperimenti nazisti cui è stato sottoposto. Ma dimostra che si può combattere la banalità del male. È pura volontà di potenza (criminale e assassina incontenibile solo secondo logiche non sue). Come l’asino che scalcia. Il maiale che divora il bimbo lasciato incustodito. Il lupo affamato e inferocito. Animali che ancora nel ‘600 venivano poi processati e giustiziati dai tribunali ecclesiastici e laici proprio come se fossero “cristiani”, perché corpi manifestamente posseduti dal diavolo o spettri non indocili di esseri umani. Nel 1685 il lupo di Ansbach da tutti ritenuto il fantasma del sindaco defunto fu spellato e il suo corpo fu rivestito da un lino color carne e la sua testa di una maschera, barba grigia compresa, più parrucca castana, e solo dopo fu impiccato. Mascherato da uomo.
Ma se è l’animale che entra nell'uomo (distruggendo ogni tabù, conformismi, sensi di colpa e concetti usurati come il peccato…) e non viceversa, nessun tribunale potrà mai giudicarlo e giustiziarlo. “Alive generation”. Mario Martone nel Sindaco del rione sanità assolve i cani sbranatori addestrati. Ma in questo caso l’animale non è addestrato. È stato drogato senza volerlo. E cerca il suo pusher per eliminarlo.
Non ho remore nel dire che Doris è legata al mio canto materno perduto. Credo che la canzone, quella canzone, mi venisse intonata in italiano. Lei la canta in spagnolo? In inglese? Ma ho ricordi confusi, forse sovrapposti (non senza qualche autoironia sono costretto a notare che mi chiamo Edipo). Doris al pianoforte. Doris che fa la ninna nanna a un bambino. O forse no, gli canta la canzone e basta. La donna che sapeva troppo. Qui l’ironia però è di master Hitchcock, che ci deve aver visto un’altra bella occasione per una nemmeno tanto sottaciuta black comedy. Mentre l’uomo che sapeva troppo è seriamente e drammaticamente preoccupato, Doris, così solare, ci aggiunge quel tocco di femminile geniale fatalismo (che poi le parole del ritornello - pensateci - potrebbero essere l’epilogo perfetto di qualunque discussione di cinema o su qualunque film). E qui entra in gioco la seconda madre. La curva della mia squadra del cuore. La curva più geniale di tutte, che nell’annus domini 1984, vista la piega negativa presa dal match (contro i terribili tedeschi del Bayern Monaco), se ne esce con la versione ad hoc e personalizzata (che sarà sarà ovunque ti seguirem ovunque ti sosterrem che sarà sarà) per la squadra che porta il nome della capitale d’Italia, per coccolarla e giurarle amore eterno, in fatale continuità con Doris e con l’umorismo nero hitchockiano, cantandola senza interruzione per quarantacinque minuti, rasentando la leggenda, tanto che chi c’era lo racconta ancora oggi ai figli con le lacrime agli occhi, forse per esorcizzare per la propria squadra quello che succede al figlio di Doris nel film (e per inciso i tedeschi vincitori uscirono dal campo frastornati e increduli e, diciamolo, sconfitti al di là del risultato). E mi scuso con Doris per averla portata in un campo che davvero non le appartiene. Ma col cinema è sempre così. Que sera sera.
«Une femme est une femme non è una commedia musicale in senso stretto, ma ormai non è più un film semplicemente parlato. È un rimpianto sul fatto che la vita non sia in musica.»
(Jean-Luc Godard.)
Donen è un incrocio di colori, di gambe, di piedi, di mani, di occhi e naturalmente di immagini.
Incroci di film come di strade. E sui marciapiedi iridescenti si scivola. Movimento di mondo (direbbe Deleuze ).
Parigi come una sorta di macchina celibe, di dispositivo desiderante.
Audrey Hepburn, come una sorta di segno grafico, di elfo bisessuato e misteriosamente erotico, di sentimento del colore, di processo di metamorfosi, di corpo-set dove cinema, fotografia, moda, fumetto, pittura si incrociano.
Tutto scorre e scivola, molto godardianamente. Scivolano le immagini, i piedi che accarezzano il suolo e le pareti (che diventano pavimenti e soffitti e spalancano il cielo riflettendo il selciato).
I battelli sull’acqua, di fiumi, di laghi. Una radura, la Senna. Un tramonto, un’alba, la notte.
(E Audrey sta a questa stagione cinematografica americana così obliqua e peculiare, come Karina sta alla contingenza, all’accadere del cinema godardiano).
Sciarada (Charade, Donen 1963)
Cenerentola a Parigi (Funny Face, Donen 1957)
Une femme est une femme (1961, Godard )
Sua altezza si sposa (Royal Wedding, Donen 1951)
I piccoli principi sul cielo, mentre le nuvole rosa (Think Pink!) si riflettono e si increspano sulle piccole onde, che si inarcano come i corpi danzanti.
Il piccolo principe (The Little Prince, Donen 1974)
E quelle silhouette scorrono, scivolano “in vetrina” come sullo schermo.
(E Mini/Lucia Bosè a Parigi “pensa” soprattutto alla moda, forse non si vede ma quelle ‘nuances’ di grigio fotografate da Henri Alekan, sono pur sempre “rosa”)
Parigi è sempre Parigi (Emmer 1951)
Ma se la vetrina è rosa, le luci sono rosse. E le luci rosse di Amsterdam (non) sono quelle di Parigi. Else/Marina Vlady viene fotografata da Otello Martelli, e il giorno “in un’altra città” finisce sulla spiaggia, e anche lì scivolano sul mare desiderio e gelosia. E (forse) il giorno è “a New York”, sui marciapiedi della metropoli.
La ragazza in vetrina (Emmer, 1961)
Forse non si tratta di Parigi ma di strade (e hotel lungo la “douce France” ). Donen da un lato si aggancia con un suo “movimento di mondo” particolare alla dinamica dell’incontro che sospende e destruttura il tempo e apre vuoti, innesta macchine desideranti o risucchi nei buchi tra buio e colore, operati nella tessitura del simbolico, dall’altro compie un gesto inaugurale da cui non potranno prescindere i cineasti della New Hollywood.
Paris nous appartient (Rivette, 1961)
Due per la strada (Two For The Road, Donen 1967)
The Truth about Charlie (Demme, 2003)
Ma è tutta una fantasmatica Nouvelle Vague, via Donen, che torna nella “verità” (“a propos” di Charley) declinata proprio sulla fantasmagoria parigina, sulla topografia filmica puntualmente rintracciata nelle insorgenze, nel movimento di reviviscenza, nel nachleben.
Le immagini warburghianamente ritornano, escono e rientrano, rivivono.
Torna la Ninfa a scivolare sulla soglia.
È il viaggio in trasformazione del corpo in movimento continuo di una donna (figura “ninfica”, pathosformel , immagine in fuga ).
È Anne, attraverso i sentieri mentali dell’incontrare e abbandonare, poi ri-incontrare e lasciare di nuovo. È ancora Audrey/Johanna. Perché quella donna, quella strada, e Parigi, e New York e il cinema, mon cher Stanley, “nous appartient”, certo, sotto tutti i cieli… tanto è sempre bel tempo.
Le ragazze, in pieno trip hippie, entrano in un laboratorio sotterraneo e si denudano ai piedi di una macchina del tempo (operazione ossessiva, erotica, che si eleva via via a coazione a ripetere), che le trasferisce in un futuro non precisato, una distesa rocciosa lunare in cui si accampano prolungando il trip ed esplorando quasi senza meta questa sorta di sogno interiore che, alla fine, si rivelerà il risultato ambiguo di un progetto di cui loro stesse e i loro padri sono colpevoli, riconosciute, in un ultimo tragico autostop, dagli abitanti di questa terra desolata, come delle intruse o file impazziti del programma. Non c’è più tempo né spazio, solo il delirio compulsivo e una lotta fratricida, allo spasimo. Ma la cosa notevole in questa corsa distopica, che si intitola Idaho Transfer, e che è il secondo sconosciutissimo e stupefacente dei tre film diretti da Peter Fonda (e che esce praticamente già invisibile in un anno, il 1973, che vede su questa linea Soylent Green di Fleischer, Westworld di Michael Chricton, Zardoz di John Boorman, The Crazies di George A. Romero - e che infine potete tutti liberamente vedere su YouTube anche adesso), la cosa notevole è che non solo tutta la struttura spazio-temporale che si allarga come un prisma, ma proprio la piega interna del film ne è affetta fino a spappolarsi, ad allungarsi in una dimensione cubista e iper-visiva, che in qualche modo porta alle estreme conseguenze l’insegnamento di Corman (gli incredibili venti minuti finali). Con una lucidità e intelligenza e generosità che però erano e sono solo di Peter Fonda.