"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Nato a Roma nel 1968 si occupa di bla, bla, bla. Collabora con Skillweb, Lynx e altre società nel campo delle nuove tecnologie di comunicazione.
Appassionato di fotografia, montagna, ecologia e libertà, ASR, subbuteo e bicicletta, grafico e webmaster spesso per lavoro, spesso per piacere.
Tra le sue opere più importanti
Gentleman è la parola più ricorrente. E anche quella più giusta. Per nulla legata ai ruoli interpretati, ma alla saggezza e alla calma con cui un uomo riesce a fare in modo che il suo personaggio sia prima di tutto un uomo. E questo rende il personaggio vero. Da Medium Cool a Jackie Brown. Se poi sei anche più bello di Marlon Brando, sei troppo per chiunque (tanto che a un certo punto i registi ti dimenticano). Quando Tarantino ha scritto per te, immenso Robert Forster, lo ha fatto perché aveva bisogno di un uomo, un uomo in grado di stare accanto a una donna unica come Pam Grier, non certo per resuscitare un attore in difficoltà. Ha fatto un movimento etico prendendo spunto da te. Tu che avevi soprattutto quel modo di guardare, quella luce negli occhi. Malinconici? Di chi ne ha viste troppe? Eppure duri, duramente etici (nessuna paura dell’ambiguo ruolo in Breaking Bad). Che non ammettono ipocrisie o sotterfugi. Anche David Lynch lo deve aver pensato. Mi serve qualcuno che, nel mondo fuor di sesto chiamato Twin Peaks, sappia rintracciare brandelli di realtà, sappia portare un misto di tenerezza e dolore, sappia vedere, riconoscere, guarire.
Ho sempre pensato a “The Americans” come prototipo di un opera d’arte totale e allo stesso tempo provvisoria, così densa di vita e così incapsulata in quella cariatide del tempo che è la fotografia. La grandezza di Robert Frank sta così anche nella sua leggerezza, quella d’aver descritto i limiti di un continente nell’unico modo possibile, attraversandolo (con l’occhio di chi lo abita). «La verità è il modo di rivelare qualcosa della tua vita, dei tuoi pensieri, delle tue posizioni. Non è una cosa che sta lì a sé stante, la verità. È combinata con l’arte. E io voglio realizzare qualcosa che abbia a che fare meno con l’arte e più con la verità. Il che significa spingersi sull’orlo del precipizio - perché la gente è più a suo agio con l’arte che con la verità». In queste parole (tratte dal catalogo di “Moving Out” grande mostra che la National Gallery of Art di Washington gli dedicò nel 1994, e riprese da Giulia D’Agnolo Vallan nel suo omaggio a Frank per “Il Manifesto”) risiede forse tutta l’essenza di una vita passata sulla strada. Dagli anni rincorsi, da battente e battuto, con Jack ed Allen, al ritiro spirituale in Nuova Scozia; dalle radici della moderna “street photography” alle sperimentazioni video, sempre legato ad un idea poetica unica di quel baratro della verità in cui ha oltrepassato il (suo) secolo. Proprio sessant’anni fa girava, con Alfred Leslie, Pull My Daisy adattato da Kerouac. Con lui attorno a un tavolo, Ginsberg, Orlovsky e Corso (partendo dalla figura della “musa” Cassidy), Frank chiudeva idealmente la stagione Beat per aprire quelli che saranno i lunghissimi Sixties americani. Un’altra opera seminale che ritorna, inesorabilmente a quel viaggio fatto con la Leica in mano. Ecco perchè quelle ottantatre immagini non sono la struttura interna di album o la descrizione di un momento del paese più complesso attraverso il suo cambiamento più radicale, “The Americans” guarda al movimento che non c’è, dona alla fotografia il possesso della durata. Attraverso il tempo, anzi lo attraversa in quell’immortalità istantaneamente morta e perennemente viva che è lo scatto (fino a noi).
Bruno Ganz mi osserva in silenzio. Gli passo il cavo del microfono sotto la camicia e glielo fisso a sinistra. Ho quindici anni, faccio il mio primo stage in televisione.
Lui aspetta che io abbia finito, poi dice che sarebbe meglio metterlo a destra.
Non capisco il perché, ma eseguo.
Il giornalista fuma in un angolo, il cameraman prepara il cavalletto. Prendo il riflettore, lo sfilo abilmente dal sacco e cerco di illuminare la parte in ombra del suo viso. Trovo la posizione e m’immobilizzo. Lui mi fissa, alza il mento. Non capisco. Ripete. Inclino un po’ il freesbee. Sorride e muove la testa a sinistra. Seguo il suo movimento.
Ora la luce è perfetta. La sente sulla pelle.
Lancia un’occhiata al giornalista e a voce alta chiede se sono io il capo e se posso avvertire i miei colleghi. Noi siamo pronti. Cameraman e giornalista corrono, si posizionano a destra e l’intervista inizia.
Bruno Ganz mi guarda picchiettando un dito sull’orologio anni ‘30 che porta al polso.
Ho ventisette anni e lavoro come assistente alla regia. Gli avevo detto che sarei andata a recuperarlo dopo quindici minuti per portarlo sul set e ne sono passati venti. È vestito con un completo grigio in lana cotta con tanto di cappello in stile Borsalino. Gli conferisce uno sguardo severo. Mi parla in modo secco, diretto. Mai una parola in più di quello che deve.
Appena vestito e truccato mi aveva chiesto tempo per un caffè e dal set mi avevano concesso quindici minuti. Quando stavo andando a recuperarlo, avevo scoperto che c’era stato un problema tecnico, non avremmo iniziato a girare prima di un’ora. Da quì, i miei cinque minuti di ritardo.
Glielo spiego, alza le spalle e decide di tornare in stanza.
Passano cinque minuti, mi suona il telefono. Il problema è stato risolto, dobbiamo partire subito.
Salgo al piano delle camere, busso alla porta. Bruno mi apre in canottiera, non sembra sorpreso. Gli dico che dobbiamo partire. Alza le braccia: “Sempre così. Non importa il film. Non cambiano mai.”
Arriviamo a destinazione. Ci troviamo su una collina spazzata dal vento gelido di novembre. I tecnici e i figuranti punteggiano il paesaggio. Bruno esce dall’auto, lo vedo parlare con l’aiuto regista e alzare le braccia. Torna da me. Non sono pronti: “Sempre così. Non importa il film. Non cambiano mai.” ripete.
Le ore di ripresa passano in fretta. Bruno sale in auto che non ho ancora fatto manovra. Invece del freno schiaccio l’acceleratore in retromarcia e sbatto contro la parete erbosa della collinetta. Lui, stoico, non si è mosso.
Durante il tragitto mi racconta della sua prossima lettura in un castello. Recita con il sorriso brani di libri a memoria. Io non assaporo il momento, persa nel senso di colpa.
Arriviamo all’hotel. Scende. Sparisce. Non mi muovo, ci manca solo che lo investo. Riappare alla finestra, mi punta un dito. Abbasso il finestrino. L’indice sempre verso di me. Vede che non capisco. “L’erba.” Dice. “L’auto qui dietro, era sporca d’erba. Ma ho tolto le prove.” Mi fa l’occhiolino. Lo guardo allontanarsi a passo lento, un po’ ciondolante, con ancora addosso i suoi pesanti vestiti di scena.
Nel grondare sanguinoso, fumoso, era stato un cafarnao di ruderi, cibi marciti ovunque, una foto alla parete rancida, sputata, trafila di muffa, di penombra; nel colare di un tramonto autunnale fattosi acquoreo, Rutger Hauer s’imprime ancora, e per sempre, fiore di carne, non carne morta, in quella luce proiettata dall’orizzonte cinematografico, quando lascia andare un gabbiano che non può che puntare, con vorticare, folle sbattere d’ali, sfondare la luce, quella moria fiammeggiante da cui tutte le cose si creano, tanto più in questo autunno che scolora, cola dalla crosta del Nulla. È Verhoeven che lo modella per primo, in carne e ossa, chioma e occhi, e vomito, sperma, il fluire liberatorio, anzi libertario e beffardo, di ogni secrezione; e lo incastona una volta per tutte nel caos cadente (e ridente) del Fiore di carne, alcova di una disperazione e del tentativo di resistere alla mancanza, amputazione d’io lancinante, in ginocchio sul letto, di fronte alla foto di Olga mentre si masturba stridendo, ansando troia te ne sei andata. Congegno di carne nelle mani di un regista straordinario, carne ebbra, turgida, eppure sfumante in derelizione, in pene moscio impigliato nella cerniera dei pantaloni, ancora esalante di sborra, quel dato di fatto, lattiginosa, morbosa presa di coscienza del proprio svuotamento, del proprio vuoto, tanto più di fronte all’euforica, folle e ottusa pienezza, o tensione a riempirsi, di una delle tante donne di Paul Verhoeven, ma sempre la stessa, forma cava, infinitamente aperta, desertico specchio del Nulla. Gioioso il suo appena dischiuso fiore di carne, pollante, flagrante sotto leggera peluria, come le feci in cui Erik fruga in totale amore, già in totale balia della morte; quel suicidio che è schizzato sulla foto di Olga dopo averla leccata dietro, che apre la voragine di un’alcova a pezzi, di una luce livida fuori, che non è presagio di Niente, ma è quel Niente, quel tutto brulicante, cioè un ente basato sul vuoto. In quanto congegno di continua incarnazione, di secrezione, gioiosa deiezione, corpo vitale, felicitante, cui risvolto è la malinconia più nera impressa per sempre, da quel momento, negli occhi di Hauer, Erik è pronto a ricominciare (si ripulisce, sbratta il loft, riprende a creare, a crearsi), e se lo dice allo specchio, nonostante sappia di portarsi addosso la malattia, quel morbo d’essere pienamente solo nell’altro, per l’altro, assente.
La scena del ballo di Vivre sa vie è un perfetto documentario. Vivre sa vie, un film che si estenua di primi piani, e poi ecco che la verità, vera e intatta, emerge abbagliante in questa danza a spirale intorno a un tavolo da biliardo e a qualche freddo bellimbusto. Guarda caso proprio quando Godard, forse con qualche desiderio non sottaciuto di godersi finalmente il movimento di macchina, sembrerebbe intenzionato più del solito a seguire l’evoluzione del personaggio piuttosto che documentare Anna. Lo so che non sei malinconica come vorrei, e allora sii felice per questi due minuti e mezzo, ma in modo che si capisca il tuo dolore. La concretezza della risposta di Anna Karina, che si torce e volteggia alzando la gambina, che sorride imperterrita ai maschi imbarazzati, non lascia scampo. È davvero solo una ragazza felice che balla e che vorrebbe solo ballare e essere felice. Forse Godard a un certo punto lo intuisce. Non c’è scampo al documentarsi della finzione. Il piano si interrompe e l’attacco successivo è un movimento sul vuoto, una lavagna, il termosifone, la finestra, una sedia alla parete, l’angolo del tavolo, ancora una finestra… Fino a qui siamo allo spettrale puro, l’occhio impersonale della caméra fantasma. Poi due uomini seduti guardano senza espressione quella che - in verità - è la soggettiva di Anna. Trascendenza della caméra-Karina. Questa donna-caméra ha degli occhi grandi e lievemente orientali, con una luce dentro che ha nostalgia di qualcosa, un sorriso largo che arriva fino agli zigomi, un caschetto nero fermato con due forcine, una camicetta bianca di pizzo e un golfino nero, una gonna lunga a quadretti, le gambe lunghe e magre, le scarpe nere lucide con i tacchi.
Due uomini camminano, parlano, s’inoltrano in un bosco solcato da un fiume. Due rive. Un uomo da una parte, uno dall’altra. Si tendono le mani, si sfiorano, la distanza non le fa toccare. Proseguono, in silenzio, vicini/lontani, mentre il fiume si allarga, separa i sentieri. Gli uomini, sempre meno visibili. La musica sinfonica come ninnananna che moltiplica l’ipnosi del movimento dell’acqua e dei gesti della macchina da presa, panoramiche da una all’altra riva, a unire quei due corpi sempre più allontanati dalla geografia della natura, soggettive a mezz’aria che avanzano sopra il fiume, fino a che esso conquista l’inquadratura, entra nell’immagine, la bagna con la sua presenza. Nell’acqua-schermo si conclude, affonda, abbraccia - ovvero si apre a nuove percezioni, al fuori campo, alla disgregazione delle pareti filmiche, come in un istante espanso di potenza brakhagiana - Infinitas, titolo esemplare, ultimo film (poi avrebbe realizzato un mediometraggio documentario e una scheggia per l’opera collettiva Venice 70: Future Reloaded, non casualmente chiamata In perpetuum infinituum) di Marlen Khutsiev, realizzato nel 1991. Come non vedere allora in quelle due sponde, in quei due uomini, in quel fiume, il durante della separazione storica di un intero, immenso paese: Unione Sovietica/Russia?
Cinema infinito, quello di Khutsiev (che era georgiano), fluviale tanto nel ricorso all’acqua, di un fiume o della pioggia, elemento ricorrente nei suoi film, quanto in quello della durata, e di viaggi nel tempo e nella memoria. Il tempo, in Infinitas e ovunque nella sua filmografia, si frantuma, va contro-corrente, si annulla. Khutsiev lo sovverte fino a un punto estremo in un altro suo capolavoro, duramente colpito dal potere, Il bastione Ilich, poi ri-titolato Ho vent’anni, dove un soldato parla con il padre morto più giovane di lui. Cinema del qui e altrove, concreto e limpido, di vita e di morte, di flagrante sospensione dello sguardo, quello di Khutsiev. Cinema intimista e politico che proviene dal futuro.
Non sapevo che non si fosse mai sposata. Mi pare impossibile. O forse Princess Yang Kwei-Fei deve averla dissuasa. Troppo sacrificio. Troppo colore. Eppure già con Ugetsu Monogatari Mizoguchi doveva averla convinta che non si può fare a meno dei fantasmi, o del fantasma dell’amore. Forse è stato Kurosawa. È lui il colpevole. Le ha mostrato troppe possibilità, troppe diverse versioni della stessa cosa. O forse - parole di Kurosawa (Something Like An Autobiograpy) - la sua dedizione al ruolo era al di sopra di tutto (santo dio, non è facile essere stuprata da Toshiro Mifune). Ma il punto è che questa immensa attrice poteva con poco assorbire e riconsegnare all’immagine ogni singolo e contrastante carattere, in una pirotecnia di stati d’animo che potevano cambiare il volto intero di un film. Basta vedere il suo unico film americano (di Daniel Mann, con Marlon Brando e Glenn Ford!). Sembra che Princess Yang Kwei-Fei, per restare all’America, piacque a Eleaonor Roosvelt (ma questa è un’altra storia). Piuttosto, non credo che molti si aspettassero la deriva bad girl di Street of Shame. Ma lei poteva tutto. Bellezza violenta e archetipica insieme. Non dimenticherò mai il finale di Floating Weeds di Ozu. Un notturno senza fine, la stazione, un uomo e una donna che si danno un’altra possibilità. Machiko Kyō si alza e compra i biglietti. Sul treno apre una bottiglia. Bevono insieme. Il treno si allontana nella notte.
Dušan Makavejev: apolide balcanico grande spericolato precisissimo irriverente fragile possente ossessivo leggero caotico sapiente vitale politico sensuale ironico lacerante libero dolce spigoloso nudo. Gli aggettivi non bastano, e al limite bisognerebbe inventarne di nuovi, come lui in qualche modo ha inventato un modo di fare cinema tutto suo (con il supporto e la complicità di compagni di viaggio straordinari come Živojin Pavlović, Aleksander Petković, Želimir Žilnik, Karpo Godina), di scriverlo, di metterlo in scena, di girarlo, di rivoltarlo attraverso una dinamica dinamitarda che dalla censura di Stato alla censura di mercato non gli ha risparmiato nulla. Il suo cinema ha saputo trasformare la difficoltà, la pesantezza, la caoticità e l’orrore di questioni riguardanti l’esistenza umana in qualcosa di vicino a una canzone o a un tappeto volante, alla ricerca del segreto nascosto nel disordine.
Per una sintesi baldanzosa della personalità (e di alcune idee) di questo grande cineasta irregolare e sregolato, si potrebbe vedere il suo ultimo film, Hole in the Soul, un autoritratto prodotto nel 1994 dalla BBC scozzese girato tra Belgrado e Los Angeles.
Per una sintesi estrema e paradossale di cosa è (e cosa ancora sarebbe potuto essere) il suo cinema, è piuttosto illuminante l’incipit di un testo (l’idea di un film da farsi) di Makavejev scritto nel 2000 per il catalogo germaniano “La meticcia di fuoco” (Nei Balcani, dove i fiumi scorrono sopra i ponti): «Nei secoli che hanno preceduto l’invenzione del cinema, nei Balcani si estendevano due imperi, quello ottomano e quello austroungarico. Innumerevoli volte le loro frontiere si sono spostate da Oriente a Occidente e viceversa. Qua e là, specialmente lungo i loro confini, certi principati, staterelli autonomi, piccoli regni, hanno aumentato le proprie dimensioni e le hanno diminuite, proprio come nelle favole. Ho sempre desiderato fare un film d’animazione della durata di un minuto in cui queste mappe dei Balcani del secondo millennio si fondono in un gioco visivo degno di Norman McLaren (con un adeguato accompagnamento al pianoforte del virtuoso Oscar Peterson). In realtà nemmeno la vecchia Europa susciterebbe una migliore impressione in un simile approccio. C’è stato un tempo in cui tutta la costa orientale inglese apparteneva alla Danimarca. Utrecht era parte della Spagna, la Polonia e la Svezia scendevano fino al Mar Nero, mentre la Francia e la Germania arrivavano fino a Mosca per poi tornare là dove erano venute. Questo piccolo film mostrerebbe che tutto il mondo e non solo i Balcani si comporta come un’oca ubriaca.»
La última década de Mekas en este mundo fue a su vez mi primera en el cine. En 2009, con 23 años y el arrojo que sólo la juventud desesperada puede dar, fundé una productora con amigos, comencé a producir películas y a colaborar en la publicación de ensayos sobre cine Kilómetro 111. Ese mismo año, el director de la revista me regaló una copia de "Ningún lugar adonde ir", los diarios escritos de Mekas, recién publicados en Argentina. La revista tomaba su nombre de la película homónima de Mario Soffici (1938) acerca del desplazamiento de los trabajadores rurales con la llegada del tren a sus tierras de mano de los ingleses. Hoy, la relación entre ésta y Mekas me parece evidente como un secreto a voces.
También con el tren como protagonista infame y original, el desplazamiento condujo a Mekas de Lituania a un campo de trabajo forzado en Alemania y finalmente a Nueva York1, ciudad en la que viviría hasta el final en lucha permanente con un enemigo intrínseco del exilio: el sentido de pertenencia. El suyo fue un combate silencioso pero activo, librado en el campo de la anotación de la vida cotidiana a través de sus diarios filmados. Esa distancia intrusa con los espacios y la gente lo condujo a generar horas y horas de un material inagotable, un esfuerzo sisifeano por familiarizarse con el mundo que lo rodeaba y finalmente habitarlo, pertenecer.
El desplazamiento en la obra de Mekas es sinónimo de mirada curiosa e inquieta, extrañada. No es casual que su primera compra en los EEUU haya sido una cámara Bolex. La mirada cinematográfica es un corrimiento en sí mismo, una forma de interpelar el mundo visible. El cine, una búsqueda inagotable de un nuevo hogar simbólico al que pertenecer.
En gran medida nihilsta, Mekas nos deja inadvertidamente una lección política de capital importancia, una poética existencial: el mundo que habitamos no puede ser cuestionado sin antes experimentarse con curiosidad, con devoción total.
There are some faces that remain themselves for life. Faces beyond the films in which they appeared. Faces that resist the gaze of Roger Corman, Joe Dante, Jonathan Demme, Robert Aldrich, Phil Karlson, Jonathan Kaplan, Steven Spielberg, Samuel Fuller, Martin Scorsese, Robert Zemeckis, James Cameron, Quentin Tarantino. Faces, faces. Faces-faces. Cinema-faces. That’s why Roger Corman, Joe Dante, Jonathan Demme, Robert Aldrich, Phil Karlson, Jonathan Kaplan, Steven Spielberg, Samuel Fuller, Martin Scorsese, Robert Zemeckis, James Cameron, Quentin Tarantino insist on Dick Miller. With his brows wrinkled. The hollowed-out cheeks. His sarcasm. To continue a discourse that, through him, transcends him. To try, even if only the time of an appearance, to approach the invisible speech that knots independently of him. The speech of the face. Of that face. Which inevitably - as it disappears forever - embodies all faces. Like when you return home in the evening after a hard day happy to recognize yourself in those who are waiting for you on the doorway. Faces of clay. Bucket of blood. Afterhours. Companions of a lifetime. Accomplices in crime. In eternal escape at night. Dick Miller.