"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Nato a Roma nel 1968 si occupa di bla, bla, bla. Collabora con Skillweb, Lynx e altre società nel campo delle nuove tecnologie di comunicazione.
Appassionato di fotografia, montagna, ecologia e libertà, ASR, subbuteo e bicicletta, grafico e webmaster spesso per lavoro, spesso per piacere.
Tra le sue opere più importanti
Le storie, inserite le une nelle altre, vengono raccontate per tre corone. Un assassino misterioso ha solo nove dita. Ruiz e Ossang sono compagni segreti, passeggeri segreti. Come in un racconto di Conrad (e Kurtz si chiama in Ossang il tramatore, il mappatore verso un “cuore di tenebra” che è il film stesso) dove il giovane capitano e narratore, inserito, come un adepto-neofita, nell’equipaggio ambiguo e decrepito, avvista un uomo in mare che gli appare come un cadavere (e Magloire, nomen-omen di un “corpo glorioso” destinato a ripartirsi e trasfigurarsi, all’inizio del film di Ossang è proprio un cadavere che ritrova e rivolta sulla spiaggia, con i vestiti inzuppati e un pacco di denaro, in un paesaggio notturno e piovoso, un pelago dove il mare e la terra sono limitrofi). In Conrad quello che sembra un corpo galleggiante si muove silenzioso come chiedendo soccorso al giovane capitano, si confessa colpevole di omicidio, dunque assassino, avrà nove dita?, e sinistramente quell’uomo somiglia a se stesso, al capitano narratore. 3 couronnes e 9 doigts. Le matelot, il capitano (Diogo Doria, corpo di Manoel de Oliveira, e poi in Manoel di Ruiz conduttore e apparizione all’isola delle meraviglie, capitano di lungo corso e ancora apparizione in Le trois couronnes), un equipaggio di fantasmi, essere condotti su un vascello spettrale verso i ghiacci che fanno pensare al ruiziano Brise-Glaces, e alla grande cosa bianca dei poli nel Poe di Gordon Pym. Film clandestino costellato da doppi (Drella e il suo doppio, statuto trasmutabile del corpo erotico, come la danzatrice del viaggio in mare di Ruiz) che si inabissa e riemerge, quello di Ossang (compagno segreto di tutta una serie di film clandestini), che comincia in un sottosuolo e in una amniotica e sottomarina proiezione simile a un acquario attraversato da pesci inaudibili (il “pesce alchemico” su cui Ruiz poneva un punto interrogativo in uno dei suoi “sempre postumi”, estremo film Ballet Acquatique, 2012), che è una catabasi in cui il mare e l’inferno si incontrano e in cui quel “dito” scomparso (dalle dieci dita delle due mani, che dirigono e indicano l’invisibile) invia a una deriva dove le direzioni si intersecano come sulle mappe, sui territori che il film-nave proietta nel suo stesso ventre. È a una teoria di doppi che si destina il “corpo glorioso” di Magloire, come fosse assoldato (a prezzo del suo stesso esistere) per incarnare una allucinazione, e la nave stessa fosse il veicolo che si muove sulle “acque di proiezione”, nei territori di fuoco e di ghiaccio del cinema. Territorio, come si vede all’inizio e come si ripercuote nello straordinario e abbacinante bianconero del film, costellato di ombre, wellesiane anzitutto (quelle casse, le stive, il carico misterioso del Cargo rimandano ad Arkadin). Certo Franju (con quel cane che corre dietro l’auto e con i “negativi” pellicolari e minacciosi degli incroci destinali) e certo Murnau (la sembianza espressionista di Gerda potrebbe provenire da Der brennende Acker del 1922 dove lei, che si chiama appunto Gerda, è una sorta di figlia “del diavolo” che presiede a un “campo del demonio”, a una “terra che brucia”, e quel libro di vampiri sfogliato sottocoperta così come l’allusione alla peste portata da una nave, alludono a Nosferatu). Certo sono radiazioni, è la possibilità di far deflagrare il mondo e le sue immagini (“noi siamo i detonatori” si dice nel film) ciò che Ossang trasporta nel film. Così come è un risalire la corrente del tempo ciò in cui a poco a poco siamo, come da una corrente elettrica, trasportati mentre vediamo il film. Procedimento di risalita lungo le scoscese distese temporali che adottava Ruiz (e la presenza di Pascal Greggory che proviene dal Temps retrouvée di Ruiz lo conferma) e che qui sembra portato a un circolarità ossessiva e insieme espansiva (come se i cerchi, gli “oblò”, le iridi che ricorrono nel film fossero onde magnetiche che si allargano sulle increspature delle acque oceaniche, come nei riflessi oscuri del gorgo di un lavandino). Dunque salire sul cargo per il corpo sensibile di Magloire significa essere immesso su una sorta di banda magnetica (nel film c’è un sottile lavoro sul suono che sembra riverberare l’alterazione auditiva di uno stato amniotico), e la misteriosa gang che trasporta il plutonio ci appare come una troupe in viaggio verso l’ignoto, in una deriva oppiacea, sul dorso di una île flottant (un film analogo di Ossang del 1990 era Le trésor des îles chiennes). E man mano che il film si inoltra nei suoi detours misteriosi, si mormora sorridendo, con il compagno segreto, e con tutti i “clandestini” del cinema, i suoi occulti passeggeri, una sua, nostra, battuta significativa: “Non c’è niente da capire, ecco la chiave!”.
Alireza Khatami è regista di origine iraniana e ha girato in Cile il suo primo lungometraggio, Los versos del olvido (presentato durante l’ultima Mostra veneziana e vincitore del Fipresci come miglior esordio e del premio per la sceneggiatura nella sezione Orizzonti): basterebbero la sua erranza apolide e il richiamo all’oblio nel titolo per poterlo affiancare a Ruiz, cileno, esule e cantore della memoria e della dimenticanza. Se aggiungiamo poi che l’ambientazione del film di Khatami non è geograficamente localizzabile e che il fantastico e il passato convivono con il realistico e il presente fino a confondersi, allora la corrispondenza con Ruiz è fatta, e tutto quel che si potrà dire in più sarà superfluo.
Però è proprio quel superfluo, quella parte eccedente a interessarci. Los versos è ambientato per lo più in un cimitero e inizia con il racconto numero 997 di una serie di aneddoti dedicati alla morte: dove sono andati a finire gli altri 996, e da dove vengono? Probabilmente sono tornati, e si sono persi, nella stessa regione labirintica della Recta Provincia ruiziana, dove ogni racconto ne contiene un altro e questi un altro ancora, come infinite matriosche. Racconto dopo racconto, confluiscono nella Provincia immagini che riconosciamo come originarie da altri luoghi cinematografici: nel film madre e figlio inscenano un road-movie, e a vederli da lontano si potrebbero scambiare per Totò e Ninetto di Uccellacci e uccellini, o a due pellegrini de La Via Lattea; e il labirinto delle storie si complica ulteriormente nei meandri delle autocitazioni dei film di Ruiz, se si pensa che forse la madre è la stessa di Días de Campo (altro film autocitazionista: pensiamo ai fiammiferi giganti già presenti nella quarta parte di Cofralandes, altro paese immaginario così simile al Cile – ma ci fermiamo: la serie delle matriosche, come detto, è potenzialmente infinita, meglio tornare a madre e figlio), con il figlio che le manda lettere da Antofagasta, la stessa città di La noche de enfrente...
Come fare allora una genealogia ruiziana delle immagini nel film di Khatami se già quelle di Ruiz si fa fatica a inquadrarle e definirle? Prendiamo ad esempio l’immagine ricorrente della balena de Los versos: la sentiamo evocata alla radio, la scorgiamo come graffito, la vediamo addirittura volare. Forse proviene dalle favole di Pinocchio-Pinochet, mentitore e burattino degli americani, come veniva soprannominato dai suoi oppositori. Oppure la balena potrebbe essere il grosso pesce, simbolo di rinascita, che aveva ingoiato il biblico Giona: per analogia, potremmo accostarvi la scena del custode del cimitero che per sfuggire alla morte si lascia inghiottire dai budelli labirintici di un immenso archivio per poi emergere, quasi miracolosamente, da sotto un masso posato al suolo. Già un’altra volta era sopravvissuto ai suoi sicari, mandati dal regime dittatoriale per cancellare le tracce della propria cruenta repressione, e si era ritrovato a vagare in un deserto surrealista, con rocce a forma di dita che affioravano dalle dune.
Ecco, forse la persistenza della memoria rivela un ostinato attaccamento alla vita, il desiderio di non voler lasciar andare definitivamente quel che è dato per morto (e per questo la retorica comune, che invece è mortalmente vitalista e nuovista, stigmatizza l’approfondimento nel passato come perversione necrofila). Ruiz e Khatami danno due definizioni dell’oblio una contigua all’altra. Nella Recta Provincia si dice che l’oblio è un ricordo amputato. Ne Los versos, che l’oblio è dimenticare di dimenticare. Come dire che l’amputazione operata sulla nostra memoria è data dalla nostra incapacità di accorgerci di aver dimenticato qualcosa.
Oppure ci si può illudere di non morire mai del tutto: un corpo morto continua a progredire nel suo decadimento, a raccontare qualcosa di sé, e nel racconto in qualche modo vive, ed è ancor più vivo se quel che racconta non è verità bensì leggenda, o il lieto fine di una triste storia. Attraverso il racconto, che è innanzitutto rito evocativo e magico, prendono forma le immagini, che iniziano a danzare come fantasmi. Nessuna immagine è davvero originale: dall’archivio della nostra memoria ne attingiamo altre, affini a quelle evocate, che utilizziamo come modelli per formare le immagini del racconto: e così, di proiezione in proiezione, proteiformi le une alle altre, creiamo immagini e da queste altri racconti.
Abbiamo esagerato con le digressioni? Certo, ma ci sentivamo legittimati a farlo: nel suo Stato immaginario, come capo dell’opposizione al regime al potere Khatami ha nominato Tarkovsky, che compare in alcuni volantini elettorali (con lo slogan «El pasado pasará»), e Bergman come ex presidente deposto.
Gürcan Keltek’s first feature-length film is an astonishing survey of the possibilities still open and available to those who are working inside the boundaries of cinema. Tackling images and cinema as tools and means to further inquire about the set of rules that film-making is still dealing with, Keltek creates a tremendous visual and sensorial experience that has no equals in contemporary cinema today (with the only exception of Ala Eddine Slim’s work). His visual approach, already clearly refined and fully fleshed out in Fazlamesai (Overtime) – his first short film – evolves further on in Meteorlar (Meteors). Structured in what appears to be a narrative loosely tied by several chapters, there is a deeply resonant web of cosmic audio-visual fabrications. It deals obviously with the Kurdish identity and war, but the film also manages to evoke the so-called documentary elements of a broader context. The film begins and ends with a moon that slowly rises in the night sky. And it is the very same moon that ends it. Inbetween, there are scenes from a mountain hunt, the Kurdish guerrilla, and violent protests against the Turkish military and police as well as the voices of children and an unbelievably breath-taking meteor shower. Thus, Keltek manages to do several things in just one film. He questions the very notions of documentary and militant and politically engaged film-making. Keltek, an extraordinarily accomplished visual film-maker, depicts not only a very specific region (the southeast of Turkey), but produces a consistent mythopoeic universe in which image and sound redefine both the notion of watching and that of the image.
Shot in an elegant, grainy, very low-defined black and white, the image seems to be always on the verge of tearing itself apart of to simply expose its pixels (and it does happen…). Keltek tests the texture of the image as the image itself were a war zone. It is as if Keltek needed to go to war against the image to try re-thinking the possibilities of how to film a war in the current context. So, the unthinkable happens: the film becomes an immense and pulsating cosmic canvas, as if Tangerine Dream where reprocessed by Aphex Twin’s deconstructing approach. This is how Keltek can call upon an entire country and its politics in a precise historical moment and in a brutally, excruciatingly exact way.
Thus, Meteors becomes Turkey itself. No longer a film “about something” but the “thing” itself. Keltek’s keen ability for filming and framing landscapes, volumes, depths, texture and the dialectics of sound and vision, reaches its peak at the sight of Nemrut’s head. Suddenly, we are no longer on the northern border of the Kurdish district but in a completely different time and place. While the grainy images never allow us to forget that we are watching someone who is working (making a film…), the sheer volume of conflicting elements allows Meteors to transcend its own limits. The film becomes a powerful rumination on mankind and the void they are living in, but also a reflection of the endless returning cycle of the seasons of war and grieving.
Out of nowhere though, two snakes dance their mating rituals. It’s a mesmerizing and disturbing image. We cannot tell the two snakes apart.
Gürcan Keltek creates a sensuous and mysterious place of cinematic (im)purity. By accepting in the fabric of his film all those elements that are usually shunned upon, he also questions the notion of economic politics in film-making. Meteors is a new territory on the maps of contemporary cinema. It’s a filmic abstraction that becomes the most accurate depiction of what can still be done with cinema today. A timely and much needed reminder of the necessity of re-thinking the overall context of contemporary filmmaking.
Meteors is already a modern-day classic. A film on which we will look back whenever we will need tools and ideas and images, whenever we need to redefine and re-orient our position.
It’s that rare and precious film.
Lisbona, estate, giovinezza. Una città che appare come un enorme set, dispersa ed inaccessibile, aldilà delle storie di Wenders, dell‘Angelica di De Oliveira, dei misteri di Ruiz. Un luogo dalla mappatura impossibile, di narrazioni incerte e abbozzate, di un respiro suadente ma dalla malinconia di distanze spesso incolmabili. Forse questo ancora non può saperlo Chico quando lascia l‘agreste e bucolica campagna portoghese per dirigersi nel reticolato di strade e vie che ancora oggi appartengono a Camoes come a Pessoa. Arriva per andare a caccia del proprio futuro, tra lavoro e studi, qualcosa che continuamente gli sfuggirà tra le mani, con un inquieto senso di inadeguatezza latente, inconsapevole e forse inevitabile. Vive con i suoi amici all‘interno di una enorme parentesi, in un‘infinita sospensione della provvisorietà, attraversando la superficie cristallina delle cose senza che nessuna di esse possa appartenergli. Disperso nella luce, stordito dalla musica, abbagliato dalla droga; con una Lisbona notturna figlia dell‘apparenza mentre quella diurna rimane solo sullo sfondo, attraversata da quel ventotto elettrico che scollina miradouri abbracciando il tempo e la sua nostalgica circolarità. Il finale lascia tutto aperto (e così tutto chiude), nell‘esposizione continua e dolorosa a suoni ed immagini apparentemente senza fine.
Chico gioca apparentemente con il tempo, non accorgendosi della pericolosità, o di quanto sia esso a prendersi gioco di lui. Lontano è l‘albero di limoni dei nonni che lo riparava dal sole cocente, ora sono i fari stroboscopici a bruciarlo, a rendere viva (e già consumata) una durata dalla prospettiva incerta in cui nulla è concreto e tangibile, disegnata sul crinale della perdizione. La provvisorietà annega amicizie ed amori, esasperandone una vitalità forzata, ampliandone i confini di un eterno presente, che non può ricordare un passato e tantomeno vedere un futuro. Nel giungere vorticoso delle tenebre al culmine di ogni giornata, un piccolo Decameron giovanile strappato alla contemporaneità, solo l‘attimo può aver la sua dignità; al calar della sera il rituale di un‘altra festa compirà il suo corso, lasciando altri frammenti, altre macerie, altre visioni del limbo esistenziale quanto emozionale in cui galleggia una generazione intera. Ogni abbozzo di storia, ogni embrione di una narrazione possibile, si fonde con un‘altra ed un‘altra ancora, disperdendosi nel gioco del caos, dentro un‘altra alba ancora che spunta all‘improvviso dalla luce troppo reale, e quindi fastidiosa, per i nostri giovani protagonisti. Una distopia dilatata probabilmente, o solo un disperato desiderio di vita, qualcosa di altro (altero ed alterato) non descrivibile perché ovattato nel rumore di fondo incessante.
In una splendida scena, consumata frontalmente all‘interno di una festa, il suono scompare e l‘inquadratura si stringe su Chico, sognante e astratto, protagonista del film ma forse non più della propria vita. Un frammento muto che appare infinito, un‘astenia dei sensi, qualcosa che spezza inevitabilmente la percezione da ambo le parti dello schermo. Cabeleira, giovanissimo, coglie con rigore e sensibilità il respiro di una generazione sul limite dell‘esser perduta, al confine di una crisi economica, politica e sociale che non genera mostri ma soltanto corpi vuoti alla deriva, dall‘anima ferita e dalla speranza oramai inevitabilmente corrotta. Si avverte il senso di una fatalità incombente, nello scorrimento inafferrabile proprio della giovinezza (come del cinema), sottratta alle tenebre solo dalla sovraesposizione della luce artificiale. Resta l‘oscurità di un‘adolescenza dissipata, di notti visionarie senza confini e di un‘ossessività informe in cui a stento ci si riesce a riconoscere, ad affrontare, a comprendere. Chico potrebbe venire da un‘altra epoca, conoscere la ragazza che Vítor Gonçalves all'esordio portò al cinema trent‘anni prima, nel misterioso, straordinario e seminale Uma Raparíga no Verão. Entrambi bisognosi di una strada, di una direzione, di una parola, entrambi in attesa di una possibilità, di un segno, di un amore. Entrambi ragazzi, entrambi lusiadi, entrambi poetici, battenti e battuti.
Una città senza nome, in Arizona, sembra essere quella zona di mezzo in cui il campo vuoto del deserto restringe ulteriormente il confine visivo tra vita e morte mentre il tempo sembra dilatarsi nello spazio. Qui, un cowboy novantenne ateo, si prepara al grande salto. Così John Carroll Lynch, al suo primo lungometraggio presentato in concorso a Locarno, mostra pezzi di vita, pelle, carne sconfitta dalla solitudine di questo cowboy sempre più prossimo alla fine; il suo cappello e i suoi stivali da western accompagnano l’eco di un’armonica che suona Red River Valley e di nomi che hanno bucato lo schermo del cinema americano (John Wayne, per esempio) riproiettando in avanti il Mito di un certo cinema in cui il deserto diventa luogo di intercessione per fantasmi.
In questo passaggio d’anime invisibili, Lucky (questo è il nome del protagonista e il titolo del film) diventa un viaggio spirituale che, in realtà, accompagna l’attore Harry Dean Stanton al suo ultimo film; di lì a poco infatti Stanton, all’età di 91 anni, ci avrebbe lasciato scrivendo inconsapevolmente e definitivamente il suo testamento cinematografico (con ovviamente la coda di Twin Peaks: The Return), perché Lucky è Harry Dean Stanton e Harry Dean Stanton è Lucky, attore e personaggio a fare un organo intero, corpo caratterista, corpo umano: qui ombra e immagine si fondono nella gravità del suo sguardo per farne spettro trattenuto, rumore di fondo, rumore nelle immagini. Ogni corpo filmato infatti, traccia un segno e che in Stanton è sempre stato il tratto scavato della sua figura, voce morbida tra le sue ossa e poi gli occhi, due bocche spalancate sulla macchina da presa. Lucky e Stanton qui si incrociano come due destini che si riflettono e raccontano pezzi di vita in una pulsione fortemente autobiografica (l’inizio di carriera come attore in film western, il suo passato da cantante e veterano della Seconda Guerra Mondiale) e indagano sul tempo che resta, sul realismo che è una cosa, sulla vecchiaia sempre più accomodata ai bordi del letto, sulla verità della solitudine che dilata la percezione del tempo e che uccide più del fumo di sigaretta. Stanton è un performer e Lucky rappresenta sicuramente la performance della sua vita e, in verità, il tempo qui diventa prova di resistenza, esercizio instancabile, disciplina ferrea che Stanton pare vincere ogni giorno, prestante nella sua prestazione, con quei movimenti del corpo che rappresentano l’incipit di questo corpo-film per cui il luogo fisico del film diventa il corpo stesso dell’attore mentre una voce di fondo ci chiede “ma anche i film invecchiano”? e, mentre ci si prepara alla fine, “cosa ricorderemo” e cosa non verrà trattenuto? Quale immagine? Quale anima? e allora la scena più commovente del film è il viso di Stanton piegato dal tempo e dalla voce di tenebra di Johnny Cash mentre si arrende all’oscurità che non si dirada e alla speranza di una luce.
Ma Stanton, nella sua lunga carriera cinematografica, è stato anche personaggio lynchano e non è di certo un caso se David Lynch lo omaggia inserendosi in questo film nell’unico luogo possibile in cui il tempo invece pare smembrarsi per diventare ponte e punto estremo: in perfetto stile, il modo unico con cui Lyncha ci lascia sempre un enigma tra le mani; qui Lucky dialoga con lui di notte in un bar come due vecchi amici che si conoscono da circa trent’anni, lui che è disperato per aver perduto il suo migliore amico, la tartaruga di nome Presidente Roosevelt e che troveremo ad inizio e fine film come un Caronte che accompagna Lucky verso la fine. Ma esiste nel cinema una fine? e la morte? anche quando è vera il cinema pare fingerla così come Stanton non è ancora sul punto di attraversare quella porta rossa con la scritta Exit in bilico tra un’entrata e un’uscita di scena, visto che al di là non c'è niente, quasi a voler fingere la vita stessa.
Al secondo film S. Craig Zahler tiene duro e resta considerabile una scoperta assoluta. Non c’è da stupirsi che sembri muoversi con velocità e come in preda a un vero e proprio fuoco realizzativo (in arrivo già il film successivo, un poliziesco con Mel Gibson, Jennifer Carpenter, Don Johnson..), né che certa compattezza e addirittura simmetria nella coppia di film diretti finora (l’esordio luminoso Bone Tomahawk e questo corrusco livido Brawl in Cell Block 99) venga scambiata per arte mimetica o, peggio, per ritorno omaggiante all’arte di genere (grindhouse). È d’altra parte l’unico modo per spiegare l’altrimenti inspiegabile. Intanto il trasporto addirittura fisico con cui Zahler sembra aver interiorizzato – nel fraseggio, nel posizionamento dell’occhio, nel modo in cui costruisce tempi e spazi – una linea che va da Howard Hawks a Don Siegel a John Carpenter (forse anche a Hill, forse anche a Joseph H. Lewis). E come lo faccia senza ergerli a funzioni filmiche esplicite (come farebbe, peraltro sicuramente con sapienza e splendore, un Tarantino, da cui, ripetiamolo, differisce completamente). No, per Zahler questi nomi e numi sono ariose e spesso violentissime circolazioni amorose che lui riduce all’osso, agendole per quello che sono, ossia la base, il fondamento, la radice del cinema americano. Non c’è bisogno per esempio di spiegare o dire più di quel che già si vede perché il mondo in cui si dipana il trapasso sacrificale di Vince Vaughn (completamente trasformato rispetto al passato – True Detective e Hacksaw Ridge a parte: calvo, con una croce tatuata sul cranio, glaciale, fatalista, malinconico, uno che ne ha viste troppe, uno che quasi implora il resto del mondo di non provocarlo perché sa cosa sarebbe capace di fare, perché sa cos’è il luogo impossibile in cui l’amore coincide con la psicosi) è chiaramente lo stesso mondo attonito e posto sotto il giogo di qualcosa di imponderabile del Carpenter di They Live (e d’altra parte all’inizio il West filmato in Bone Tomahawk mostra le medesime caratteristiche), crisi economica e disoccupazione comprese. Ecco allora questi tempi sfilacciati, sospesi, questi sguardi misteriosi da un finestrino all’altro dell’automobile, lanciati distrattamente su un junkie seduto alla fermata dell’autobus.. Sono inquadrature e nulla più, magari più lunghe del necessario, spazio vuoto e tempo svuotato, deriva interna all’immagine stessa, mentre tutto intorno il cielo illividisce e le crepe nel corso apparentemente segnato della narrazione la conducono invece e segretamente (con quale maestria) verso l’esito più grandguignolesco e insieme fatto della fredda materia d’ogni destino fatale. In questo Zahler è l’esatto contrario del grindhouse anni settanta. L’ultraviolenza del finale è nient’altro più di quel che significa narrativamente – ossia la scelta estrema di un uomo messo in una situazione estrema – senza alcun compiacimento o gratuità, rispondendo unicamente a un fattore etico. Ovviamente un’etica costretta a ripensarsi come segno fisico dell’eccesso: ma, per capirne le ragioni, basterebbe ricordare l’eloquente scena iniziale quando Vaughn/Bradley scopre il tradimento della moglie (Jennifer Carpenter) e, cosciente della rabbia che lo sta per far esplodere, la fa rientrare in casa e sfoga tutto il suo dolore distruggendo l’automobile di famiglia, scegliendo responsabilmente di non toccare la donna nemmeno con un dito; sequenza che fra l’altro permette allo spettatore di accettare la follia del medico coreano che più tardi, quando la moglie di Bradley incinta verrà fatta prigioniera, si dirà capace (è Udo Kier, grandissimo, a recapitare pazientemente il messaggio) di mutilare il feto delle braccia mentre ancora è nell’utero lasciandolo in vita e dunque di farlo nascere così, con due moncherini. L’architettura dell’immagine è a sua volta secca, plumbea, grandangolare (qualcuno, non lontano dalla verità, ha parlato di cura o istinto kubrickiani), attenta a non falsificare i fatti col montaggio, pochissimi tagli e solo quelli necessari a ricordarci che un film (o che il cinema americano che amiamo) non è fatto di cuts ma di piani (plans).
È ancora possibile, oggi, credere alla pupilla che tocca, vitrea, la morbidezza nera delle immagini? Esiste cioè una disposizione d’animo, più esattamente, un’accorta devozione verso ciò per cui i nostri occhi hanno ancora voglia di credere? Riccardo Palladino sembra rincorrere questa necessità di fondo perché fare cinema è già in sé un atto di resistenza, significa lacerazione, sguardo dilatato dentro ciò che non è possibile ancora vedere. Secondo J.M. Straub, nel cinema “bisogna scavare, ma per scavare bisogna avere una punta, ci vuole acutezza” e così, probabilmente, si è cercato di fare con questo documentario Il monte delle formiche, presentato in concorso a Locarno nella sezione Cineasti del presente, poiché si scopre un’Italia diversa, forse scomparsa in cui Palladino scava o, sarebbe meglio dire, scala la sua montagna per scoprire cose mai viste in chissà quale passato remoto la cui perdita è diventata nervatura stessa dell’occhio, quel territorio sconnesso che è ancora in grado di sovvertire la scena.
Il Monte delle formiche è un appennino distante alcuni km da Bologna su cui sorge il santuario dedicato a Santa Maria fornicarum: ogni anno (l‘8 settembre, compleanno della Vergine) migliaia di formiche alate femmine portano con se un maschio nel proprio volo nuziale. Subito dopo l'accoppiamento, i maschi precipitano agonizzanti sul sagrato della chiesa e muoiono mentre la femmina, terminata la cerimonia, si stacca le sue quattro ali, si rinchiude sottoterra e fonda una nuova colonia. Decine di bambini assistono alla scena e partecipano a questa danza con quell’innocenza che fonda interrogativi e quella purezza d’animo che porta con sé lunghe lenzuola bianche, abito nuziale su cui si abbandoneranno gli insetti, raccolti poi come reliquie in sacchetti di stoffa. C’è qualcosa di estremamente mistico e sacro in questo sbattere d’ali vorticoso e, allo stesso tempo, di così crudele se “l’amore ha quasi sempre il volto stesso della morte” (Maeterlinck) e questa effervescenza che si sprigiona nell’aria, trova il suo sottofondo, una voce che intona una filastrocca spezzandosi poi in un vero e proprio rituale antico che ogni anno si ripete. La voce si fa nenia, ancella di una natura arcana, madre per cui noi non siamo altro che “da lei circondati e abbracciati, incapaci d’uscirne fuori, e incapaci di penetrar più addentro in lei” (Goethe).
Palladino, qui al suo quarto film, polverizza l’immagine ricorrendo alla pellicola (Super8 e 16mm): si tratta di una realtà rara, quasi trasparente, prossima alla scomparsa e lo spazio ripreso non può che insinuarsi nella grana sporca dell’immagine, sguardo antico come questa piccola comunità di cristiani che assiste alla cerimonia della Vergine partecipando a un mistero che li rende tutti fedeli alla vita, alla morte. C’è uno sguardo non solo estetico, sicuramente lirico, ma soprattutto politico in questo film ché ci rende ben consapevoli di quanto l’uomo moderno sia lontano dal concetto stesso di comunità e aggregazione; al contrario, il profondo misticismo della formica che nel suo volo d’amore si concede alla morte per il bene di una collettività sotterranea, fa sí che lei operi ed esista solo “per il suo dio, né immagina che si possa avere altra felicità, altra ragione di vivere, che servirlo e dimenticare se stessa, perdendosi in lui […] il suo totem è lo spirito del formicaio” (Maeterlinck). Le parole del grande entomologo Carlo Emery e di scrittori come Maurice Maeterlinck e Goethe puntellano il movimento stesso di questi sciami al galoppo che fermano il tempo in un eterno presente e tutto si ripete come i resti di una memoria collettiva ancora in grado di tornare in superficie a cercare di rovesciare un sistema individualistico che ci riguarda e che il cinema, di rimando, prova a smuovere nella sua (in)attualità senza la pretesa di svegliare coscienze ma per lo meno di pungere gli occhi.
Andava a trovare i suoi morti
rinchiusi in armadi sconnessi
...
A. Gatto, Infanzia, in Isole)
A prescindere dalla narrazione e da quelle che sono le inferenze antropiche di Surbiles - ciò che si vede e si sente nelle ambagi del film (negli armadi, agli angoli delle camere, proprio nelle intercapedini della struttura cinematografica) a proposito di sincretismi, superstizioni, o del magico superstite (guardando anche un po’ a De Martino) -, con tutto il corollario esistenziale poi connesso a queste figure fragili e dolenti, per quanto orride, erranti di vampire (quindi una gamma di tonalità e registri che prevede anche l’ironico, se non proprio il comico inerente al metabolismo dei vecchi parlanti, semoventi); è nella forma, com’è evidente, che Columbu concentra tutto il suo potenziale dialettico, sfruttando la scarnezza, la povertà della ripresa amatoriale, per fini, come dire, gnoseologici, cioè indagando questioni come l’essenza dell’immagine, la sua presunta autenticità e i margini di manipolazione iconica entro un programma profondante, sprofondante di racconto: perché proprio mentre cerca di addentrarsi negli spazi di profonda, stratificata significazione, questa struttura sembra smottare, ridursi in macerie d’immagine, cumuli di ombre digitali. Cioè, quanto aggiunge questa modalità di ripresa al fondamento filosofico (teorico: ma di una teoria del mondo piuttosto che solo del cinema) necessaria al racconto, alla possibilità di dire e di mostrare anche oltre la finitezza endemica di parole e figure, magari attraverso condizioni particolari di luce, di crepuscolo dell’atmosfera cinematografica? Come se queste, nella fredda povertà, precarietà della ripresa, acquistassero una maggiore pregnanza estetica, gnoseologica appunto: la capacità di dire, mostrare, fare intravedere la bassa, la basica sostanza costitutiva di tutte le cose e adiacente al nulla. Il che sembra confermato dalla confluenza (per certi aspetti) con alcuni esperimenti recenti, partendo da quella sorta di archetipo che può essere Mysterious object at noon di Weerasethakul: ad esempio El futuro di Luis Lopez Carrasco, in cui è proprio la modalità del mostrare, la ripresa in 4:3 e nella definizione di una VHS, ad aprire squarci, passaggi temporali non tanto dentro la Storia (e nella politica), quanto nell’immaginario anche oltre gli anni Ottanta; o I tempi felici verranno presto di Alessandro Comodin, tutto teso nell’alternanza e indistinzione (come in Weerasethakul) tra documentario e finzione, e comunque pervaso a tratti dalla stessa luce crepuscolare, mortifera, dalla stessa scarnezza (problematica, teoretica) del digitale domestico di Surbiles.
È un essenziale, rudimentale posarsi, addentrarsi dello sguardo nella realtà spoglia e ancestrale, folklorica di certa Sardegna: una forma, una maniera che mima alla sua maniera - per luci smorte e sagome vaporanti, processioni di metaplasmi in filigrana sulla campitura; costruzione estatica del piano (per lo più cieli e vegetazione) e apparente approssimazione, sommarietà dell’uomo con la videocamera; quadri chiusi, claustrofobici ed ellissi su campi lunghi, su riti apotropaici legati alla terra, che scongiurino l’ossesso, proteggano il sonno dei neonati - tutta la congerie di stanze disadorne dove brulica dal crepitio degli arti l’insetto suggente; intonaci all’insegna di ceri di plastica rossa e piccoli (in)significanti ex-voto; il senso di vecchi canterani pieni di chincaglie, di armadi di legno tarlato con dentro coperte di lana, odori di legno vecchio, buio, pesto; cucine e sale da pranzo d’accatto, con televisori a tubo catodico sui comò, o d’altra parte certa ruralità fatta di pavimenti di pietra grezza, camini di sussistenza, porte e finestre sbrecciate da dove premono queste lemuri con voce rauca, e le campane a morto. Un senso di morte, aleggiante nel gesto del riprendere: quella illuminazione lampante che viene dalla decomposizione, la costellazione delle cose divenute sintesi, apocatastasi vertiginosa nella forma (cadente), che cova nelle luci ingiallite, appannate ai vetri, nelle sere d’inverno rimestate da due o tre lampioni, i silenzi nei vicoli e nelle stanze dove i bambini stanno zitti, fermi per non essere presi, ad ascoltare gli scricchiolii del fuoco e fanno finta di non sentire chi o cosa fuori continua a chiedere di entrare.
Ecco un film (Toronto, “Wavelenght”) vissuto e visto dall’interno, che setaccia se stesso in filigrana, che disegna, fra trasparenze e controluce, la strana ronde di relazioni alterate che lo compongono o di cui si vuole far comporre. Non è nuova a questa procedura quasi tattile la regista Anna Marziano (si veda Variazioni ordinarie dove la parola letteralmente si installa come virus che mette in circolo le immagini, oppure Orizzonti Orizzonti che rilascia storie per aprire e chiudere spazi come membrane). Inocula un tema spogliandolo del suo stesso contenuto e trasformandolo direttamente in premura filmica. Qui l’amore, anzi la fine dell’amore, anzi la riattivazione in forma di memorabilia di qualcosa chiamato amore. La malinconia di ciò che resta dopo il massimo dell’attrazione possibile filmata però come una folata di vento, una corsa verso un futuro confuso e libero insieme. Al di là dell’uno è una sorta di concentrato di intensità, di alterazioni furtive di e fra le immagini, prima ancora che fra le persone convocate a raccontare, a parlare. Nel titolo è già contenuto questo salto oltre se stessi, la presa di posizione che mina le sicurezze del singolo e rischia o invita a rischiare di nuovo, a disseminarsi invece che a chiudersi in una convalescenza infinita. Salti e tuffi sonori e di grana (16mm e super 8), voli geografici da un capo all’altro del mondo (Francia India Germania Belgio Italia) sviluppano su un piano atmosferico ciò che sembra di continuo scivolare e in qualche modo rendersi indiscernibile nell’inconscio. Solo apparentemente frammentario, e invece aperto a farsi travolgere da un’unica linea conflittuale, dove i conflitti presenti e passati sono altrettante figure visive, altrettanti passi sonori. Non a caso è centrale la lettura di Brecht, laddove saggio e poesia si intrecciano innescando però una battaglia delle idee che vorrebbe liberarli di orpelli pur mantenendone intatta la struttura politica. Eppure il fraseggio della Marziano è sommesso, schivo, come quando si diffida di ricordi che si credevano superati e che d’improvviso risalgono dal fondo. Le voci – talvolta lontane giaculatorie, talaltra grida soffocate (bellissima, in italiano, la telefonata che registra su una segreteria la rabbia, quasi la lotta disperata contro la distanza che separa due amanti) - sono quasi sfocature nel flusso di memorie, e sembrano porsi su un differente piano spazio-temporale, fuori sinc, devote piuttosto all’immagine muta, alla potenza del silenzio. Che parli da sé, cha faccia da sé tutto questo passato che non vuole andarsene e che insiste a tornare in scena. Che si faccia lui il proprio film.. E mentre gira imperterrito da sé la Marziano cuce e ricuce, aggiunge tasselli, inventa un mosaico fatto di segreti evidenti e di verità nascoste. Verità. La verità è che c’è un cinema italiano tanto appartato quanto elettrico (si vedano in questo speciale i casi altrettanto atipici di Palladino e Columbu), che ritorna a porsi il problema del corpo stesso dell’immagine, di come vada o si possa concepire un film filtrandone l’immancabile rete socio-antropologica che pure aziona il narrativo. Per Anna Marziano questo discorso sembra coincidere con la messa in scena - proprio con il ritrovamento - di un respiro, insieme dolce e affannoso, che dia ragione della duplice tendenza dell’umano verso l’altro e verso la solitudine. Ciò che è intimo viene in qualche modo aperto, squadernato in una miriade di tracce e conversazioni al tempo stesso infinite e interrotte, ma tutte parte di una fisica mutevole, di un precipitato morbido, sospeso, in cui qualcuno vedrà una fine, qualcun altro una speranza.