"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Nato a Roma nel 1968 si occupa di bla, bla, bla. Collabora con Skillweb, Lynx e altre società nel campo delle nuove tecnologie di comunicazione.

Appassionato di fotografia, montagna, ecologia e libertà, ASR, subbuteo e bicicletta, grafico e webmaster spesso per lavoro, spesso per piacere.

Tra le sue opere più importanti

  • bla bla bla
  • bla bla
  • bla bla bla bla

 

Sunday, 23 July 2017 23:14

Le vénérable W. (Barbet Schroeder)

L'arpia birmana

Roberto Silvestri

Buddista, ma non di quelli amati da Kerouac e Ginsberg. Invece razzista, armato e xenofobo. Bersagli non più gli induisti Tamil in Sri Lanka, ma i sunniti musulmani profughi da decenni nel nord ovest della Birmania (Myanmar, per dirla coi militari), da perseguitare, picchiare, cacciare, uccidere. È di moda un po’ ovunque. Tra i seguaci del rito “theravada”, quasi la totalità del paese, cresce un pericoloso movimento virale di ispirazione fascista che programma campagne d’odio e pogrom di immigrati, guidato da un monaco baby face carismatico, estremamente pericoloso anche perchè, strumentalizzato dai dittatori militari si è poi agganciato, opportunista, alla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, oggi al governo. 

Ma come raccontare questa truce tragedia, locale e globale? Tra “cinema del reale”, che poeticizza l’atmosfera, per non cadere mai nel peccato mortale dell’ideologia, e coraggio di prendere partito (afferrare il verosimile per le corna e a forza di risposte, non di domande da fare alle immagini, trasformare il film in un procedimento linguistico reale) Barbet Schroeder, come sempre, sceglie il brigatismo rosselliniano.  

“La dea della conoscenza non sorride mai a coloro che trascurano gli antichi” scriveva nel 600 d.C. Bartrhari, poeta indiano (monaco 7 volte e 7 volte spretato). Una massima che Schroeder non dimentica quando dà sfondo, aria e prospettiva storico-geografica alle sue indagini - sempre approfondite, e ancora più inquietanti del soggetto che via via ha scovato - sul male e la violenza assurda all’opera nei cinque continenti (questa volta in Asia). Il mitologo romantico dell’800 Creuzer ci svelerebbe il suo segreto: “L’eccedenza, la densità di contenuto rispetto all’espressione”.  Il personaggio scelto è simbolico, vale di per sé. Come si dice: è autotelico. Ma dall’espressione del suo volto si decifra un mondo a parte.

I film schroederiani saranno pure “controversi”, come afferma lo stereotipo, ma sono sorprendenti e lasciano sempre a bocca aperta. Fin dalle prime battute, quando Mister W. espone con franchezza la sua hitleriana missione.

Il buddismo, e la sua tradizionale, compassionevole saggezza, è rispettata, attraverso citazioni fuori campo di Buddha in persona, e di bodhisattva successivi, lette da Bulle Ogier. E monaci di teologica virtù, sono intervistati nel controcampo da un cineasta che non nasconde l’attrazione fatale per lo zen e il Dalai Lama ma che in questo Le vénérable W. mette con le spalle al muro proprio l’astuto demagogo populista Ashin Wirathu, 49 anni, bonzo di opportunistica grinta politica, che sfrutta la religione e le sue tossicità contagiose, per una pericolosa scalata al potere fondato su idee-forza simili a quelle di Farage & Salvini o Bin Laden & altri petrolsceicchi nell’Europa pseudocristiana o nel medio oriente wahabita.

Terzo affondo sul “terrorismo” come immaginario collettivo avvelenato a morte dai virus neocoloniali (britannico, francese, giapponese, americano), dopo Idi Amin Dada ('74) e L'avvocato del terrore (2007) sull’avvocato Jacques Vergès, il legale di Klaus Barbie, e difensore storico di irriducibili della lotta armata oltranzista e martiriologica, questa volta il grande regista franco-apolide (nato a Teheran nel '41), visto che l’agognato film su Pol Pot non riesce a chiuderlo, parte all’attacco del bonzo Ashin Wirathu, nemico pubblico n.1 dei i rohingya, profughi del Bangladesh, gli odiati musulmani che, con l’aria serafica di un leader Isis, lui indica come violentatori di donne birmane, minaccia per l’integrità della razza (ma sono solo il 4%!), invasori e nemici da eliminare, attraverso una cospicua produzione di video che drammatizzano crimini in genere inventati. Siamo al confronto cineasta contro cineasta.

Wirathu è presente massicciamente sui social media, libero dopo i 7 anni passati in carcere sui 25 della condanna ricevuta nel 2003 per aver provocato la morte violenta di 200 mila “kalar” (dispregiativo, equivalente a nigger) e l’incendio di case e villaggi rohingya. Amnistiato nel 2010 Wirathu ha ripreso a fare il “Bin Laden birmano”, immortalato nel 2013 dal Time col titolo “Il volto del terrore buddista”. Non che Schreoder sia tollerato di più...

Sconvolgono le immagni dei “pacifici” monaci devoti al non-dio Buddha, ripresi come in Furia di John Ford quando, avvolti nei mantelli color ocra e rosso, bastonano, sventrano e bruciano corpi vivi spinti dalle parole del soave venerabile. Nell’inquadratura-santino, però, sul volto dell’uomo passa, come fosse Eichmann a Tel Aviv, la smorfia psicopatica. L’immagine contraddice le dichiarazioni a sua difesa riportate sui giornali in risposta all’attacco del Time, dove nega ogni responsabilità delle violenze.

Wirathu, sostenuto dall’allora presidente-dittatore, il generale Thein Sein (che lo definiva “persona nobile”) sbandiera i principi del movimento 969 in difesa della razza contro i matrimoni misti e per il boicottaggio delle merci musulmane, il divieto di vendere e acquistare case, la limitazione delle nascite (un figlio ogni 3 anni). Il gruppo oggi si chiama Ma Ba Tha, associazione per la protezione della nazionalità e della religione, ma non è meno sovranista né suprematista.

Lo shock de Le vénérabile W. deriva dalla folla di seguaci, dalle donne adoranti, dal seguito di massa, dai singoli zombizzati che inseguono un ragazzo e lo abbattono a bastonate, e accatastano i cadaveri in un rogo apocalittico.

Molte però le voci dissonanti, gli anziani monaci che “scomunicano” il predicatore sanguinario e i giornalisti, anche stranieri, che inquadrano con destrezza i fatti. Parla anche l’inviata delle Nazioni unite Yanghee Lee, definita da Wirathu, con la sua aria diligente, una “puttana” invitata a “dare via il culo ai kalar”. Fuori campo, il Dalai Lama consola e dice “uccidere in nome della religione è impensabile”. Eppure l'oppio dei popoli continua a fare politica.

 

 

Sunday, 23 July 2017 22:51

Okja (Bong Joon Ho)

La metamorfosi che ci accompagna

Mariuccia Ciotta

Vive nel mondo postgenere, non ha un sé originale né una storia, non ha un Eden da ricordare né memoria del cosmo, non rimpiange la famiglia organica, l’oikos... è Okja.

Sintesi di un’epoca e di un cinema “disumani”, la creatura di Bong Joon-ho è il meraviglioso atlas della geografia interconnessa di corpi inessenziali, fantasmatici, eppure pieni di desiderio. Forse inconsapevole, il regista di Taegu ha messo in scena il sogno di Donna Haraway, filosofa, e il suo manifesto cyborg. Corpo materico, corazza prodotta in serie, modello ippopotamo/maiale/cane, sguardo adorabile, Okja è una femmina di superpig, prodotto da una immaginaria multinazionale sudcoreana, la Mirando Corporation (alias Monsanto), boss una Tilda Swinton estremamente pop e crudele, figlia dell’inventore del napalm, memorabile per aver imbrattato le pareti della sua fabbrica di sangue operaio. Più che metafora, cronaca.

Alterata l’alchimia cellulare della bestia ogm, che come il mostro di Mary Shelley, chiede di essere amato e non di “sfamare il mondo”, Bong Joon Ho ha voluto Okja come risultato benefico di una manipolazione  malefica, al contrario dell’anfibio mangia-uomini di The Host. 

Gli incroci di senso si infittiscono nella relazione simbiotica tra la ragazzina Mija (Ahn Seo-hyun) e la bestiona cresciuta libera tra le montagne verdi, esperimento che genera non solo un magnifico esemplare da esposizione, ma il mix inscindibile animale/essere umano/macchina. Okja è un super maiale senziente nato due volte, nei laboratori Mirando e Netflix. L’azienda via internet, produttrice del film, ha negato al regista il 35mm e imposto il 4K, giustamente. Cos’è Okja se non l’avamposto dell’immateriale che pretende di scorrazzare tra i boschi, “pesare” (tonnellate) sul mondo analogico, e ritagliarsi un posto tra i viventi? Non c’è più frontiera ormai tra natura, umana e animale, e artificio. “Le nostre macchine sono stranamente viventi - scrive la filosofa americana - e noi, noi siamo spaventosamente inerti”. Vivacità del non-essere, del robot intelligente senza padri e dal sesso cangiante. L’aberrazione estrema sta nel fatto che il bestione di pixel si può riprodurre, e li vedremo i piccoli nati da genitori senza carne né sangue ammassati nel tetro mattatoio dove il superpig verrà macellato, sequenze conturbanti nel buio dei recinti, in attesa che la pistola spari nel cervello di tanti Okja. Visioni perverse da Alberto Grifi con le sue mucche sacrificate e da John Berger con il suo abisso che separa noi dall’animale, improvvisamente vanificato da Bong Joon-ho in quell’intimità transumana che fa strofinare la piccola Mija al “drago riluttante” disneyano.

C’è una promessa d’immortalità nel film in concorso a Cannes 70 e accolto da una selva di fischi per la perfetta distorsione con il quale è stato proiettato per 8’ prima che il proiezionista si accorgesse del formato sbagliato. Segno di una confusione concettuale, non solo tecnica - dallo schermino web al grande schermo - e di una indecisione sul come trattare l’ibrido assoluto Okja, un po’ il Totoro della Ghibli, simbolo del cinema Netflix, al centro di polemiche per la destinazione on line del film e la mancata anticipazione nelle sale francesi. Non che meritasse la Palma d’oro, ma l’anatema del presidente della giuria Almodovar ha confermato l’eccezionalità culturale del superpig, lasciato correre a travolgere ogni cosa nei vicoli antichi della moderna Seoul e poi nell’aeroporto tra cacciatori metropolitani e ineffabili animalisti, a testimonianza della sua esistenza. Mastodontico virtuale, “creatura da compagnia”, destinato a fare spettacolo sul palcoscenico di New York, in memoria di King Kong. Vittima la bellezza selvaggia e libera ai tempi di Cooper e Schoedsack, e ora specie da proteggere, specchio della metamorfosi che ci accompagna.

 

 

L’amour c’est gai l’amour c’est triste

Simone Emiliani

Dove torna e da dove riparte il cinema di Philippe Garrel. Attraverso un bianco e nero abissale che inghiotte nuove maladies d’amour, in un cinema fatto ancora di gesti, di scatti, di slanci, di abbandoni. L’amant d’un jour, come molto cinema di Garrel, filma l’istante proprio per catturarlo, per dilatare un tempo che è già perduto. Che il cinema può avere il potere di fermare, di intrappolare nello spazio di un fotogramma. Come avveniva in La gelosia e L’ombre des femmes, che possono comporre con L’amant d’un jour un’ideale trilogia. Di come l’intermittenza dei sentimenti può essere filmata attraverso corpi che appaiono come ombre, sottolineata dalla musica del pianoforte (che potrebbe anche fuoriuscire dalla colonna sonora e accompagnarla dal vivo) che scandisce tutti i battiti del (loro) cuore. Senza sapere mai quello che succederà. In un tempo che è il presente ma può essere indefinito con una voce-off che potrebbe situarsi più dalle parti del romanzo che del cinema. Ma quello di Garrel è tutto un lavoro di straordinaria sottrazione. Per questo L’amant d’un jour appare ancora come un film impetuoso, che ha la malinconia travolgente di Le vent de la nuit. Dove l’amore e la morte sono insieme sinonimi e contrari.

Un padre, una figlia e l’amante. Les amants (ir)réguliers di un cinema che sembra rigenerarsi ogni volta dalle proprie ceneri. Distruttivo e che brucia d’amore. Jeanne torna a casa dal padre dopo una dolorosissima rottura sentimentale. L’uomo ora convive con Ariane, la sua nuova compagna che ha più o meno l’età della ragazza. Ancora con tracce di un cinema che mette in gioco se stesso, i propri legami familiari, con la presenza di Esther Garrel, la figlia del regista dopo Louis in La gelosia, Un été brûlant, La frontière de l'aube e Les amants réguliers. Non c’è più distinzione tra il cinema e il vissuto. Tutto si confonde, tutto viene inghiottito. Non si può pensare, costruire una scena come quella in cui Gilles torna a casa e bacia prima la figlia ingelosendo l’amante. Lì c’è l’istinto, la traiettoria di uno sguardo che sa già cosa avviene prima che avviene nello spazio della scena che è già luogo intimo. La magia tra gesto e sguardo, immortalato anche dalla fotografia di Renato Berta che potrebbe replicare Raoul Coutard ma piombare anche in altre epoche, altre dimensioni spazio/temporali come può aver fatto con Manoel de Oliveira o Mario Martone. Togliendo i dialoghi a L’amant d’un jour, sarebbe quasi come un melodramma del muto, quasi un Frank Borzage dove potrebbe prendere forma l’atto estremo, quello più disperato e definitivo. Al tempo stesso, proprio in quel bianco e nero ci sono tutti i colori della Nouvelle Vague: i nomadismi di notte sulla strada (la splendida apertura con Jeanne che è seduta per terra e piange e poi cammina da sola col trolley), la voce sullo schermo nero, la fisicità del corpo ma anche della voce, come l’illusione della telefonata di Jeanne all’uomo che l’ha lasciata. “Plus jamais?”. Chissà quanto potranno tornare ancora in Garrel tutte le molteplici forme del desiderio. Come se L’amant d’un jour potesse avere ancora un sequel. O potrebbe arrivare anche dalla fine degli anni ’60, dai tempi di Marie pour mémoire. Perché si, il tempo filmato di L’amant d’un jour è già memoria. Nel labirinto di uno spazio dove le porte e soprattutto le finestre hanno un’importanza determinante. La finestra dove affacciarsi per guardare dall’altra parte. Ma anche il luogo dove oltre c’è il vuoto, nella spinta suicida di Jeanne poi salvata da Ariane in uno dei travolgenti momenti di un film che ha una spinta fisica inarrestabile. Ma anche la finestra tra il dentro e il fuori. Tra quello che lo sguardo di Garrel può mostrare e quello che c’è oltre. Che non è fuori-campo ma un’altra dimensione. Quasi di un ipotetico film di fantascienza con pianeti lontani. Perché il cinema di Garrel stesso, oggi è uno splendido alieno. Impermeabile ma anche pieno di sottili aperture. Che ancora rivela il piacere e la tristezza. L’amour c’est gai l’amour c’est triste. 

 

 

Sunday, 23 July 2017 22:31

A Fàbrica de Nada (Pedro Pinho)

Daniela Turco

Tout va bien

Tra i film presentati alla Quinzaine, mai forse come quest’anno autentico contro-canto del Festival di Cannes, per densità dei materiali, a fronte di una selezione ufficiale alquanto sbiadita, il film portoghese di Pedro Pinho, A Fábrica de Nada, sembra più di una promessa per la libertà di linguaggio e per il campo di ricerca, che, come era già accaduto nel 2015 con As Mil e Uma Noites di Miguel Gomes, si confronta, con rara concentrazione in tre ore di durata, con la realtà violenta e diffusa della crisi economica contemporanea, che ovunque in Europa e nel mondo produce macerie e che viene qui inventariata, con immaginazione e rigore, nella particolare prospettiva di una fabbrica di ascensori in crisi, situata nel bacino industriale di Lisbona.  

Quali sono i materiali che si incontrano in questo film, ellittici, familiari e nello stesso tempo inconsueti, per la carica teorico-discorsiva che li muove da una zona remota del tempo, rimettendoli in gioco come in un ritorno del rimosso? Parola, lavoro, corpi, amore, lotta, desiderio, disoccupazione, paura, sono alcuni degli elementi che si combinano tra loro in un’armonia dissonante nel ritmo cadenzato di un film che si prende il suo tempo senza fretta, riuscendo ad assemblare insieme stralci in off dalle pagine di Ai nostri amici (2014), pamphlet antagonista del Comitato Invisibile, con il pensiero filosofico di Simone Weil; il proto-punk dei Death con i lunghi detour in barca sotto la pioggia nella waste land che costeggia il Tago; Tout va bien e Passion come doppia matrice originaria del set, con la riappropriazione liberatoria, alla fine, dei lunghi piani-sequenza straubiani e del canto dell’arrotino in Sicilia!.

Sembra che l’idea originale di Jorge Silva Melo da cui proviene il film, fosse quella di convertire la storia di una fabbrica e degli operai in lotta in un musical, ma poi, tra le mani di Pedro Pinho il film prende un’altra strada, nonostante qualcosa rimanga di quel progetto iniziale, anche se l’irruzione improvvisa di un genere in un altro non costituisce probabilmente il maggior interesse del film. Dell’autogestione di una fabbrica si era anche occupato nel 1979 il cineasta spagnolo Joaquim Jordà, che con il folgorante Numax presenta... aveva esplorato la potenziale flessibilità del documentario, realizzando un’opera militante e atipica su una fabbrica occupata e sugli operai in lotta, su cui, a distanza di venticinque anni, era poi ritornato, con Veinte anos no es nada, riprendendo i fili interrotti di quell’esperienza e di quelle persone. Forse qualcosa del coraggio e della sperimentazione politica di Jordà è consapevolmente passato dentro A Fábrica de Nada, che del resto emoziona proprio per quel continuo va e vem, che ne sostiene la struttura, quel cortocircuito che rischiosamente implica continuamente la vita, l’amore, con il lavoro, che si materializza anche come segno nel paesaggio e scena dominante e primaria, a partire dalle strutture industriali che si vedono profilarsi fuori dalle finestre della casa di Zè, uno degli operai, per proseguire oltre nel defilè di capannoni, container, ciminiere delle fabbriche che penetrano fin dentro la città, con il loro carico ambivalente di lavoro e di morte. Quanti paesaggi sfigurati come questi, dove i prati sconfinano con le case e con i fabbricati industriali, esistono ancora come presenze spettrali e in dismissione, non solo in Portogallo, ma anche a Taranto, a Piombino, a Porto Marghera, e oltre? Uno dei punti di forza di A Fábrica de Nada consiste proprio nel dare spazio a queste immagini mute che si concatenano e confluiscono in un inventario impressionante e brutale delle mutazioni dei luoghi e, conseguentemente, delle persone, osservate nel tempo fermo del capitalismo estrattivo, dell’apocalisse sostenibile e della crisi permanente. All’inizio del film, a casa di Zè, l’unico degli operai ad essere seguito e filmato fin dentro la sua intimità personale e perciò politica, una telefonata dalla fabbrica, che sollecita la sua presenza immediata, interrompe la coppia mentre sta facendo l’amore, e lungo tutto il film, come già avveniva in Passion e in Sauve qui peut (la vie) di Jean-Luc Godard, viene ampiamente indagato questo nodo misterioso e molto stretto, già osservato da Simone Weil nel primo volume dei suoi Quaderni, tra amore e lavoro, e più in particolare, tra i gesti dell’amore e quelli del lavoro, che, come sosteneva Isabelle Huppert in Passion, sono, in fondo, gli stessi, anche se non hanno necessariamente la stessa intensità.

A Fábrica de Nada, non ha solo il merito di portare alla luce e a un’analisi critica pezzi di realtà distopiche in atto, ma anche quello di liberare ancora una volta la potenza della parola operaia (gran parte dei non-attori del film sono lavoratori industriali), tanto nelle lunghe sequenze in cui i singoli raccontano la propria esperienza di lavoro e di vita, tanto per dare una esemplificazione istantanea e plastica di ciò che significa biopolitica, quanto nei discorsi più analitici sulla condizione operaia nell’era della globalizzazione, sulla situazione sociale oggi in Portogallo, in un rapido avvitamento su sparizione del lavoro, povertà, alienazione, merce. Di colpo ci si ritrova spiazzati di fronte a un lessico troppo in fretta derubricato come obsoleto, che chiede invece con urgenza di essere rimesso in questione e in circolo, perchè ne va delle nostre vite.

Meno seducente e sensuale rispetto al pastiche polimorfo declinato da Miguel Gomes in As Mil e Uma Noites, A Fabrica de Nada, si muove però in quella stessa direzione, che prevede il tempo lungo di una lotta continua contro la paura, per una sistematica riappropriazione della gioia, che, come l’amore, è una parola politica. Ce n’est qu’un début....

 

 

Sunday, 23 July 2017 22:25

Closeness (Kantemir Balagov)

Carlota Moseguí

La superheroína del Cáucaso

En el seno de una pequeña comunidad judía de la República de Kabardia-Balkaria, denigrada a diario por los kabardinos, un espíritu rebelde ha nacido en la capital, Nalchik, para romper las reglas. La indomable Ilana todavía no conoce la magnitud de su fuerza. Pero sabe, con certeza, que su vida no será como la titánica supervivencia de quienes forman parte de esa minoría humillada en el norte del Cáucaso. La protagonista del sobresaliente debut de Kantemir Balagov es un ser de una intensidad inagotable, incapaz de controlarse a sí mismo; una fiera que detesta que sus familiares y su novio (no judío) la apacigüen hasta amainar su poder. En ese lugar infernal, inhabitable para los judíos, donde cualquier muestra de flaqueza es castigada con la muerte, una adolescente desatará el caos en la comunidad al presumir de su libertad.

 

La primera vez que la Rosetta rusa de Balagov aparece por primera vez en escena presenciamos la represión más incómoda de toda cinta. Así, descubrimos a Ilana jugando con su hermano a un juego salvaje que da por finalizado en el momento en que el menor advierte que ésta desea violarle. En su superlativo homenaje a los hermanos Dardenne, Balagov plasma el tempestuoso tour de force que llevará a cabo Ilana sin la menor intención de juzgar su falta de límites, pues la desinhibición de la primogénita será lo único que salvará a la familia de su desdicha. De este modo, Closeness deviene un relato sobre la empatía – o ‘cercanía’ tomando su título original (Tesnota) –. Producida por Aleksandr Sokurov, esta deslumbrante ópera prima narra el destino de una superheroína que despliega todo su poder para ayudar a otro ser humano.

 

Desde el inicio, Ilana se manifiesta como el único miembro de la comunidad judía que posee la fuerza suficiente para salvar a su hermano menor, y a su prometida, de un secuestro orquestado por kabardinos durante la celebración de su boda. Mientras ese suceso traumático – tan habitual a finales de los noventa en la región donde nació Balagov – revela el lado más oscuro y egoísta de todos sus seres queridos, Ilana terminará por asumir la que siempre fue su misión en esa comunidad: convertirse en una mártir.Balagov nos remite al pasado sangriento del Cáucaso, con su puesta en escena del odio, la violencia, la frustración, el antisemitismo o la misoginia que rodean a esa superheroína, que a pesar de no temerle a nada sólo se derrumba en un único episodio de la ficción: el momento en que su novio y sus amigos le muestren escenas de las ejecuciones reales de Chechenia. 

 

 

Sunday, 23 July 2017 22:17

They (Anahita Ghazvinizadeh)

Lorenzo Esposito

Lei

Che dietro l’esordio di questa giovane regista iraniana ci sia Jane Campion (produttrice esecutiva) è fin troppo evidente. Siamo dalle parti di In the Cut per la capacità di riversare sul film (sia proprio sulla patina che sull’andamento) l’incarto e incanto mentale della (?) protagonista in modo da ottenere una struttura fatta di pieghe e soglie che si rincorrono e insieme è come se volessero fare dell’immagine l’astrazione del vedere. Non è solo una procedura contenutista derivata dall’inclassificabilità gender dell’eroina quattordicenne J, ma proprio una concezione auto-ipnotica per cui la filigrana del film è fatta dell’incrocio instabile di sguardi su questo evento (scegliere il proprio sesso) ambiguo e per nulla chiarito che aleggia fra i personaggi.

Sorprende dunque il modo ritmicamente complesso con cui Ghazvinizadeh tratta la messa in scena, conducendola lentamente in uno stato di sospensione quasi catatonica nel più lungo pranzo di famiglia che sia dato vedere da tempo al cinema (compreso di infiniti preparativi). Chi è lei? La domanda produce un reticolato di rapporti e fatti quotidiani volutamente (e per contrasto) lenti e naturalistici, un mondo di apparenze  e occulte ancestralità che si amalgama e deborda in una tragica cecità collettiva. Da un lato scambi e occhiate sottotraccia, svincoli e vincoli famigliari sottaciuti; dall’altro il peso della casa madre Iran ottuso tanto quanto quello della casa ospitante Usa. Tradizioni intese come conflitto permanente ma tutto rivolto all’interno, per nulla interessato a processi trasformativi e dunque completamente deciso a rimuovere la scelta o il momento della scelta di J. Di nuovo, non è semplice linea narrativa, ma suo prolungamento quasi visionario a inventare un’atmosfera liquida, fredda, attonita. Curioso che ci si lamenti della lunghezza del pranzo (quasi tutta la parte centrale del film) proprio non vedendone la crucialità (anche metaforica!) nel costituirsi attorno a una pura deriva dei sentimenti. Semmai andrebbe verificata la tendenza neanche troppo sorniona della regista ad avere uno stile, cosa mai buona (soprattutto nell’accezione inglese di film stilish), seppure qui mitigata dal processo fluttuante con cui si ha l’intuizione di trasformare il film in un limbo inquieto continuamente sedotto e incrinato dal suo stesso dilemma. Chi vivrà vedrà.

 

 

Erik Negro

Arturo Lima

Thursday, 20 July 2017 09:45

INTERZONE – Francesco Totti

  

 

 

Edipo Massi

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