"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Nato a Roma nel 1968 si occupa di bla, bla, bla. Collabora con Skillweb, Lynx e altre società nel campo delle nuove tecnologie di comunicazione.
Appassionato di fotografia, montagna, ecologia e libertà, ASR, subbuteo e bicicletta, grafico e webmaster spesso per lavoro, spesso per piacere.
Tra le sue opere più importanti
Andando alla deriva, intrappolato nella rete, sulle tracce di Bitter Money alla ricerca di un naufragio impossibile mi colpisce l’esatta distanza temporale (16/2-16/9) tra i due articoli di Erik Negro su Cinelapsus dedicati agli ultimi “tasselli” dell’opera di Wang Bing. Le due pagine sono praticamente identiche, autori (del film e del testo), date, “luci verdi” nella stessa posizione, se lo schermo nasconde le foto in testa (che hanno comunque entrambe per soggetto giovani donne, ma mentre la ragazza di Ta’ang ha lo sguardo dritto in macchina che rimanda il fuoco alle sue spalle le due cuginette dello Yunnan hanno gli occhi chiusi dalla stanchezza), le uniche differenze sono il titolo del film e il mese in cui è stato postato lo scritto. Questa curiosa quanto effimera osservazione non mi appare una pura casualità (già non è per un caso che Wang Bing abbia presentato un film al festival di Berlino e uno a Venezia pochi mesi dopo), ma piuttosto le cifre numeriche sembrano segni che rimandano a una struttura più o meno nascosta nel cinema del filmmaker cinese. C’è una coesione evidente più che un’ottusa coerenza tra le diverse opere: sequenza dopo sequenza, film dopo film Wang Bing ci mostra un mondo a forma di scatole cinesi, in cui ci muoviamo in flussi tutti contenuti e separati. La variabile tra un pezzo e un altro può essere temporale (quindi inesistente), quantitativa (durata, soggetti, misure) ma la struttura e le sovrastrutture che la determinano hanno la stessa forma, chiusa, buia e sbarrata. Quando dice “L’inquadratura non è fondamentale. Quello che conta, nell’immagine, è chiedersi che cos’è questa caraffa. L’oggetto che vediamo sull’immagine, l’oggetto in sé, la sua vita. Non si tratta di osservare il bordo ma l’oggetto.” ci ricorda che nei suoi film non c’è inquadratura perchè non c’è un fuori campo che ci può salvare, manca il cielo dei finali, anche i più tragici, di Rossellini. Il mondo fuori dal tugurio dove vivono le Tre sorelle è lo stesso tugurio ma più grande (lo stesso vale per Father and Sons ma anche per il Distretto di Tiexi) il pezzo di città di Bitter Money rimanda nella struttura dei palazzi e delle strade al manicomio di Till madness: la forma (come la sostanza) è sempre quella del campo di concentramento. Nessuno dei film ha una fine né un confine, Wang Bing sta lavorando al seguito di Bitter Money come di Father and Sons ma potrebbe allo stesso modo continuare a seguire i bambini di Ta’ang, vedrem(m)o mutare forse il filmante, probabilmente i filmati, ma non “l’inquadratura”, siamo già tutti inquadrati.
Le meccaniche del capitalismo e dell’autorità sono il quadro in cui si muovono le anime perse filmate dallo sguardo empatico del filmmaker. I film di Wang Bing sono mappe del vuoto che c’è tra una scatola e quella più grande che la contiene, è in questo vuoto costretto e delimitato che si muovono gli uomini e le cose, è qui che si forma l’immagine che segna l’assoluta equidistanza tra chi è dentro e chi è fuori annullando per un attimo la separazione a cui ci costringe lo spettacolo.
Se vedessimo nel cinema di Wang Bing una mappatura della povertà e della violenza cinese lo ridurremmo all’ennesimo intellettuale che scende tra i dannati della Terra con la speranza di salvarsi l’anima e pulire le nostre coscienze. In Bitter Money si accumulano e sovrimprimono mappe su mappe; le disegnano i viaggi migratori dei poveri dello Yunnan che vanno nel nord-est, i flussi commerciali delle stoffe che producono, le strade e i palazzi in cui vivono ammassati, gli incroci dei sentimenti che ogni tanto affiorano nella normalità di rapporti bestiali. Sono gli stessi volti che abbiamo visto nei film precedenti, ci sono le tre sorelle e parti del petrolio di Crude Oil, conosciamo i villaggi da cui provengono e i manicomi e le carceri in cui finiranno. In Bitter Money cuciono incessantemente mappe, pezzi di stoffa appunto secondo l’uso antico della parola che ancora si conserva in parti del sud Italia, sognando che il sangue e il sudore che versano gli indichi la via al paradiso che nella loro visione è sinonimo di soldi. Wang Bing segue questi uomini donne cercando con loro, sempre in fuga da povertà e violenza ma carichi di speranze e di sogni come sono gli sfruttati di tutto il mondo, una via d’uscita da questo carcere a cielo chiuso (in senso letterale non letterario). Film dopo film si accumulano evasioni fallite, film dopo film si riaccende il desiderio di libertà. È questa la sceneggiatura che tesse Wang Bing e il premio alla miglior sceneggiatura di Venezia è un atto critico pari alla forza del suo cinema.
Gli angeli dal suono della sua voce conoscono l’amore di un uomo , dall’articolazione del suono riconoscono il suo regno, e dal senso delle sue parole il modo di conoscere. (voce femminile fuoricampo in esergo al film)
Il microfono è in campo. Dall’alto giunge volando il microfono, una bambina seduta, come in Balthus, guarda certa-incerta verso di noi. “Suono!” Prima del cielo e della terra, solo le onde sonore. Uno sfrigolio, un luccichio, una nebulosa (la frittata in un pentolino, forma divinatoria), come ab initio, caosmico, della Comedia de Deus. Il film di Rita Azevedo Gomez divarica le distanze, gli echi, appunto le corrispondenze, per compitare una rinascita, ritessere le voci di due poeti lontani e ridare vita, nell’arco “in cielo” dell’epifania del suono, a una parola che mentre “manca” , mentre si pone continuamente fuori campo, da luogo, in presenza, al farsi dell’immagine, anzi al suo moltiplicarsi in intarsi e iscrizioni di schermi, in “angoli tra luce e buio”, in rimbalzi vocali e immaginali. La lingua degli angeli. Lingua di nascita e di scissione, in cui il nostro Altro si pone come corpo sottile, si pone accanto, aleggiando a mezzaria. Lingua animale, corpo e lingua, possibilità di filmare il corpo poetico con il suo peso leggero che ogni volta occupa uno spazio diverso, e oscilla sospinto, e invisibile. Come quell’altalena che viene mossa da un vento che scalpita. Ai quattro angoli del mondo, come i cavalli del vento.
“Mi viene in mente la sentenza di quel padre Malagrida, messo in esergo da Stendhal al capitolo XII del Rosso e il nero. “La parole a été donnée à l’homme pour cacher sa pensée”. Non lo intendo solo nel senso che grazie alla parola egli può nascondersi agli altri ; ma che si nasconde, volente o nolente, anche a se stesso. Penso che il Doppio sia nato da questa divaricazione. Con la maschera, con le figure del discorso, col fatto stesso di autorappresentarsi (mentre all’animale sarebbe bastato essere). Mentre ci estrania al corpo, all’animale, alla semplicità dell’essere, lo sdoppiamento prepara i viaggi estatici. Qui morire significa rinascere.” (Vincenzo Loriga L’angelo e l’animale )
Nel film le voci e le parole di De Sena e De Mello, la loro corrispondenza, rispondono a un tra-guardare, che è anche un tra-guardo diffratto e sdoppiato nel tempo e collocato-ricollocato nello spazio. In quello spazio che, come nei film di Pollet, corrisponde alla “dimora inquieta”, con il suo “tavolo su cui poggia l’enorme mela rossa, nella stanza sul mare”, con le porte e le finestre che si aprono e si s-chiudono su altrettanti schermi. E gli schermi sono i battiti d’ala di un angelo che vola da una parte all’altra. Tra i soffitti e i pavimenti. Tra gli arbusti portoghesi di un orto botanico e le onde dell’oceano che sbattono sulle rocce brasiliane o sulle spiagge californiane (dove de Sena si esiliò), laddove, città degli Angeli, i piedi alati osano, esitano, sfiorare la terra. A volo d’uccello, come sul “miradouro” che a Lisbona è stato dedicato, a picco sull’amato mare-fluidofiume, a Sophia. Massima distanza e massima prossimità, dis-giunzione che è “l’intensità del vuoto e l’intensità della comunione”. Lotta con l’angelo fino all’alba, presso la scala su cui vanno e vengono le anime, vita delle immagini che sarebbe “la lotta d’immagini che non vogliono morire”. Ecco appunto la metamorfosi, o metempsicosi, in cui, da un punto sempre diverso, l’immagine rinasce a se stessa, proprio nel momento in cui il suono si accende come un attrito, un toccare la luce improvvisa che scaturisce dall’ascolto dell’aria intorno, dal captare, in presa diretta la grana di quella voce. Lingua degli uomini, lingua degli angeli, lingua degli uccelli. Ascoltiamo: “Gli uomini erano angeli e sono diventati uomini. Gli uomini erano uomini e sono diventati animali.” Gli animali tornano ad essere angeli, nelle costellazioni, nelle corrispondenze. Nelle voci che si rispondono, nelle lingue (francesi, portoghesi, spagnole) che sobbalzano ogni volta che il microfono entra ed esce dal campo. Sono proiezioni del destino, sono trasparenze imbricate le une nelle altre a lasciar vedere, intravedere, intrasentire. E sembra non ci sia luce, eppure una piccola luce luccica, “una piccola luce e tutte le lingue del mondo”. Nel silenzio si sente lo scalpiccio del cavaliere che monta i cavalli del vento. Un cavaliere che (come avviene nel Fisico Prodigioso di De Sena, e come viene assorbito nel-dal film) può fermare il tempo e rendersi invisibile, proprio perché parla con gli angeli, mentre cadono, e quindi compone “diablerie” insieme agli angeli che cadono come stelle, durante la loro caduta, la “scorribanda” del demonio, che è come l’aleggiare di quell’angelo. Qualcosa da guardare da lontano, da “tra-guardare”. Un indotto nomadismo, va e viene di una voce. Che già filmò, in quanto voce di Sophia, Joao Cesar Monteiro nel 1969. E che ora ritorna, attraverso il tempo. Laddove si mettono le ali per innalzarsi lungo le spire serpentine (come i boccoli e la collana viva di Simonetta Vespucci nella tavola di Piero di Cosimo) del labirinto nelle nostre vene, dove il sangue parla lungo i secoli, e vaticina. Presiedendo quell’Apollo Delio, quel Minotauro, quegli Idoli Cicladici che appaiono nel film come d’improvviso. Pietre che parlano, pietre di luce che emettono immagini, per l’alchimia del verbo cui De Sena si richiamava, scrivendo anche lui la sua Pedra Filosofal. Oppure, tra cielo e mare, ponendo in esergo al suo Fisico prodigioso le parole di Rimbaud, fanciullo divino, che reclama l’orina dei fanciulli (immagine alchemica dell’oro filosofale): “Je pisse vers le cieux trés haut e trés loin-avec l’assentiment des grands héliotropes”.
¿Qué podría unir los proyectos en suelo africano de una compañía constructora yugoslava con la epopeya serbia El Príncipe Marko y Vila, con una ciudad sumergida bajo un lago artificial de Brasil, o con el romance entre dos hombres instalados en un complejo hotelero abandonado? Aparentemente, nada. Y, sin embargo, todo.
All the Cities of the North es un patchwork tejido con un material etéreo, que no puede verse, pero sí sentirse de una forma indescriptible. Sus hilos mágicos conectan historias, sensaciones, sueños, e, incluso, citas literarias - de La gravedad y la gracia de Simone Weil - y cinematográficas - diálogos de Pasión de Jean-Luc Godard. El film resulta una suerte de intersección de fragmentos de lo más dispares, misteriosamente unidos por las reflexiones que aportan sobre la relación entre el ser humano y el espacio que ocupa. Según Dane Komljen todo territorio es un lobo para el hombre. Sin embargo, está en nuestras manos transformar ese venenoso y hostil antagonismo en un hermoso (re)nacimiento. Como demuestran cada una de las fábulas expuestas en All the Cities of the North, las últimas gestas heroicas de la Humanidad surgieron durante sus tentativas de (re)inventar, (re)construir y (re)ocupar un lugar.
Etimológicamente la palabra ‘utopía’ significa ‘no-lugar’. En su origen, el vocablo implicaba imaginar un espacio que todavía no existía, a una no-imagen y no-semejanza del presente, puesto que el deseo de los utópicos no era otro que mejorar, es decir (re)formular, su presente. Komljen determina que el acto más humano, la acción a través de la cual la Humanidad alcanza un estadio de esplendor y afirmación, es mediante la construcción de ese no-lugar esperanzador, manipulando un espacio ya existente. La ópera prima de Komljen es un espléndido poema de rima libre, cuyo esqueleto de versos y estrofas se basa en la enumeración, e intercalación, de pequeños y grandes episodios - ora reales, ora soñados - en los que la Humanidad decidió (re)generar un microcosmos poblado.
Si bien es cierto que el resultado de la (re)edificación de dichos hábitats termina en tragedia en gran parte de las situaciones tratadas por el cineasta-poeta bosnio, Komljen no nos invita a analizar por qué las utopías se convirtieron en distopías. En realidad, el film incide en la misma idea: es el acto de soñar, o desear el (re)nacer, así como defenderlo y estar llevándolo a cabo, aquello que saca la esencia humana de nuestro ser. En este sentido, tampoco debe sorprendernos que la mitad del metraje de All the Cities of the North sean planos de uno de los tres protagonistas masculinos durmiendo, es decir soñando.
All the Cities of the North se mueve entre tres narraciones sobre la (re)utilización y (re)invención de un espacio concreto. Por un lado, seguiremos el relato de supervivencia de dos outsiders que luchan por acondicionar un reino indómito, sin toma de agua, ni corriente eléctrica. También descubriremos la desdicha de la ciudad de Villa Amaury, que fue construida voluntariamente por los mismos albañiles (sin conocimientos de teoría urbanística) que estaban edificando Brasilia a pocos metros, y que los arquitectos-jefes de Brasilia decidieron hundirla en un largo artificial cual castigo, como ya ilustró Komljen en su cortometraje anterior All Still Orbit. Además, conoceremos los sucesos que protagonizaron los habitantes de los suburbios que rodeaban el edificio de la Lagos International Trade Fair de Nigeria, cuando se apropiaron de ese pabellón (que pretendía simbolizar el crecimiento económico del país) en vistas de que el milagro nunca sucedería. Asimismo, en medio de esta confluencia de batallas y metáforas sobre la Humanidad (re)inventándose, aparecerá Dane Komljen en escena, filmando a los amantes de la trama principal. En ese momento, All the Cities of the North deviene un inestimable artefacto metacinematográfico, que le recuerda al espectador que el cine es mágico, y, gracias a él, también (re)nacemos, (re)construimos y nos (re)inventamos a diario.
Quasi un tour. Negli attraversamenti senza meta, nelle soggettive della strada dove si cerca di sorgere altro oltre l’orizzonte. Sullo sfondo di un paesaggio che muta ma non sembra mai appartenere a Pierre e Paul. Una maladie d’amour giocata sulla distanza, sulla separazione. Dove la macchina da presa sembra scavare dentro/oltre i primi piani, sprigionando un tormento epidermico che porta Jours de France nelle zone del cinema di Paul Vecchiali a cui Jérôme Reybaud - qui al uo primo lungometraggio - ha dedicato il documentario Qui êtes-vous Paul Vecchiali?. I giorni perdono i loro limiti temporali. Sembrano frammenti di un’eternità. Nel cielo grigio, nelle luci della notte. Dove ogni gesto si porta tutto il sovraccarico di tutta una vita. Un urlo. Come quello nella campagna deserta. Un voce che si libera in un film invece segnato dai silenzi ma dall’incessante flusso dei pensieri. Dove la colonna sonora sono i rumori del motore dell’auto, della pioggia, le voci dell’autoradio.
Jours de France sembra quasi un film fantastico. Come se i corpi si sdoppiassero. L’iniziale addio potrebbe non esserci mai stato fisicamente. Può essere tutto nella testa di Pierre. Quasi una proiezione di se stesso a bordo della sua Alfa Romeo. Tra montagna e campagna appunto, con i tratti di una fisicità e sessualità che ha lampi di rabbia e di passione come in Claire Denis ma che poi ritorna nelle zone di un cinema che si spinge a filmare il pensiero e il desiderio. Il corpo, lo spazio. Pierre si autoalimenta con il vuoto attorno, nello spazio all’interno della sua macchina. Gli incontri diventano sempre tappe provvisorie. Sia gli incontri sessuali, che possono nascere dalla casualità di un numero di telefono scritto sulla porta del bagno di una stazione di servizio, sia quelli con le donne a cui da un passaggio in macchina. Oppure nel momentaneo slancio verso un proprio passato, nell’incontro con la libraia interpretata da Natalie Richard. Alla stessa maniera Paul. Che si compra due posti per vedere Così fan tutte di Mozart anche se non ha nessuno vicino a sé perché anche lui è un corpo che, cinematograficamente, vive da solo e acquista spessore solo se sullo sfondo dello spazio.
È continuamente segmentato Jours de France. Nelle carrellate che seguono continui movimenti orizzontali come le camminate, nelle autostrade che sembrano creare come delle rette parallele. Quelle di un viaggio parallelo, di un inseguimento/pedinamento che lambisce le zone del thriller. Che spezzano e poi ricompongono il paesaggio e che poi aprono nuovi squarci come l’entrata in chiesa o la corsa verso una borsa rubata, nella masturbazione vicino un muro. Con un attrito persistente tra la carne e la materia. Come se ci fosse uno scontro ogni volta che Pierre gli va incontro. Come a creare nuovi spazi, luoghi immaginari fisici/mentali. Dove musica (Mozart, Ravel, Rameau) e mito (la Medea di Corneille) diventano momentanee immersioni, controcampi e zone di fuga in un cinema di continui confini, anche geografici (la Francia/l’Italia), quasi pulsioni verso un altro tempo. E il contatto con la realtà e il ritorno al presente avviene frequentemente attraverso le app, mappe virtuali che (man)tengono quella sottile tensione di rivelazioni e sparizioni, di un cinema che riesce ad essere contemporaneamente concreto e astratto, che fa sentire addosso l’umidità della nebbia, il freddo della neve. Tutte temperature apparentemente esteriori che sono in realtà un altro dichiarato richiamo di contrasto. Proprio per dare forma a quel fantasy desiderante dove Reybaud ama perdersi. Come se anche il suo sguardo volesse perdere d’orientamento in un cinema che ama (re)inventarsi.
Rat Film. O, anche, Baltimore Film, che potrebbe essere un titolo alternativo, in sovrimpressione con quello originale del primo lungometraggio d’arte, politico e poetico, astratto e carnale, dell’artista visivo, documentarista militante, fotografo e reporter, Theo Anthony. Che Baltimora, la sua città, la conosce bene, negli anfratti e nella totalità, nelle persone singole che la abitano, formando nel corso del tempo una comunità stratificata e problematica, e nella sua Storia. Abitata, inoltre, ieri come oggi, da una moltitudine di topi contro cui la popolazione, le istituzioni, gli scienziati hanno mosso e muovono una guerra senza quartiere.
L’opera di Theo Anthony è, attraverso questo pre-testo, la cartografia di un luogo, il di-segno di ambienti e di persone/personaggi uniti fra loro dal soggetto del film oppure isolati nella rappresentazione di un lavoro-ossessione-memoria moltiplicatore delle possibilità di messa in scena (il museo delle miniature che riproducono scene di crimini) e di visione (il laboratorio per la sperimentazione di esperienze in virtual reality). Questi ultimi sono due inserti a sé in un testo costituito di frecce che indicano percorsi multidirezionali, intersezioni, detours dell’occhio tra staticità e movimento, falsi movimenti e surplace del gesto e dello sguardo. Con l’inquadratura-simbolo, ripetuta, del topo all’interno del bidone dell’immondizia che salta cercando di uscire, il suo corpo teso nell’impossibile realizzazione della sua missione, nel superamento di quel muro di latta che separaunisce il dentro e il fuori. Ovvero, il senso di Rat Film, che è la mappatura visiva e sonora di un attraversamento incessante dei confini. Anche in una stessa inquadratura. Si pensi all’uomo-pifferaio seduto sul divano di casa con i topi sulle spalle, che inizia a suonare il flauto riproducendo dal vivo l’immagine contenuta in un quadro alle sue spalle con una donna che suona un analogo strumento, e alla stanza ri-di-segnata con muri di separazione che lui e la moglie hanno costruito per fare circolare i loro topi domestici; agli uomini che, con armi e oggetti, tendono imboscate assassine ai ratti che si intrufolano in un giardino o in un vicolo (e qui il discorso si espande e fotografa la questione delle questioni, la relazione fra gli americani e le armi); ai topi rosa, neonati, ancora ciechi, costretti in contenitori per essere dati in pasto ai serpenti (e qui il film devia verso lo snuff, perché un gesto di naturale ferocia animale, se eseguito in libertà, si trasforma in orrore se eseguito in cattività e alimentato dalle intenzioni scientifiche dell’uomo).
I confini si slabbrano. E le frecce di Rat Film aprono cortocircuiti spazio-temporali. Nel presente di Baltimora, mappata da Anthony con andature differenti (la messa in posa degli interlocutori; le strade colte nella sospensione della notte; il videogame urbano tridimensionale; gli edifici, le strade, i quartieri della città accostati in un montaggio clip punteggiato di bip sonori preceduto da una soggettiva dentro/fuori un tunnel, come un mouse, rieccoli i topi in una parola più dolce…, del computer che traccia ulteriori itinerari). Nel suo passato, nitidamente portato in primo piano tanto dalle mappe di Baltimora - sulle quali incidere fratture o posare colori per evidenziare i segni di quella problematicità sociale che significò segregazione e separazione tra la popolazione bianca e quella nera - quanto dalle fotografie dei luoghi più poveri e marginalizzati. E i corpi e i volti di anonimi afro-americani accanto alle loro baracche dialogano con quelli altrettanto anonimi filmati oggi dal regista. Cortocircuiti, sempre. “New maps. Old maps. Same maps”. La Baltimora di Theo Anthony, con i suoi topi e i suoi abitanti eccentrici (non si può non pensare a Herzog, che Anthony ha ben presente avendo frequentato nel 2013 a Los Angeles la Rogue Film School creata dal cineasta tedesco), assume quindi/infine la forma di un corpo sul quale praticare un’autopsia al tempo stesso radicale e visionaria.
Quando parliamo di immagini, quando parliamo di cinema, dimentichiamo spesso a noi stessi che si tratta di qualcosa che imprigiona gli occhi, di una specie di folgorazione, di volo mentale che ci scaglia su territori indefiniti e stranieri ma che ci tiene stretti nella morsa della visione; allo stesso tempo l’occhio, questa sfera cristallina che risucchia e capovolge ciò che della cosa vista è diventata pura proiezione, imprigiona l’immagine sulla retina, la manipola secondo impulsi elettrici, l’annienta poi al successivo battere di palpebra e cambio di visione. Prede e predatori, la sfida sta in questa eterna lotta che il cinema ci pone in vista, magari, di una utopica liberazione degli occhi. Così i primi minuti del film The Challenge di Yuri Ancarani mostra la resistenza e la prigionia: centinaia di falchi volano all’interno di un edificio/gabbia e sembra quasi un girare a vuoto (quello dell’animale, quello del regista) come in uno stato di perenne cattività che diventa anche sguardo dello spettatore che prova a reggere l’attesa di fronte a un desiderio oscuro, occluso, ancora bendato prima di essere slacciato definitivamente in volo e poi dentro la propria preda. In questi primi 4 minuti il senso della visione e del veduto è un pensiero che si rimargina continuamente, è l‘incipit di un colloquio inesatto, di una geografia di immagini ancora da raggiungere. Il falco, animale predatorio, qui viene addestrato secondo una pratica millenaria, in vista di una gara di falconeria nel deserto del Qatar. Anche il deserto occupa la vista, appunto, ci imprigiona nella sua grandezza, nel suo essere niente o meno di niente e proprio per questo rappresenta una «perenne eccitazione» – dice Bachmann – «pronto a divorare l’osservatore [perché] è più forte di tutte le immagini che siano mai entrate nell’occhio». Ma qui ciò che pietrifica è il colore netto che invade la superficie dell’immagine, l’oro colante sugli oggetti e sulla sabbia a creare strati e apparenze, ulteriore gabbia alla naturale brutalità dell’immagine: è la cromia esatta di un luogo che, in The Challenge, mostra la sua immagine capovolta. Il deserto non è più deserto, povertà fisica, pura assenza ed essenza d’altro ma diventa un luogo di messa in mostra: non più un vuoto che libera i corpi, che li desertifica rendendoli polvere e miraggio, non più una luce che acceca e inghiotte e che espone la percezione al suo limite, qui al contrario tutto è sempre esteticamente esatto, limato, addestrato e preparato per avere già tutto nelle nostre mani. Dentro questa proliferazione materiale di oggetti, denaro, jeep e lamborghini (è l’aristocrazia petrolifera nel Qatar a fare da padrone), il deserto diventa territorio senza zampe ma fitto di rombi di motori nella sabbia a sviluppare tracciati di un’umanità esagerata, quasi surreale, aliena forse, e proprio per questo in grado di rompere le coordinate del puro spazio dell’immaginario. Qui gli uomini non guardano il deserto, non assistono al cielo rivoltato negli occhi, alla sabbia manipolatrice di percezioni, chimere e fantasmi ma ciò che compie Ancarani è dirottare gli occhi nella visione sospesa al movimento del falco che mentre insegue la sua preda dentro un volo epilettico, liberatorio e allo stesso tempo estatico, tutto in soggettiva grazie a una microcamera legata alla testa dell’animale, viene a sua volta inseguito, ingabbiato al volo e riproiettato all’interno di schermi che infrangono e rifrangono le immagini. Campo e controcampo, quello di Ancarani, è la sfida dello sguardo che si genera e rigenera installandosi sulla sabbia come un monolite kubrickiano, schermo nero, terzo occhio che assiste a ciò che resta dell’umano. Un occhio che - parafrasando Merleau-Ponty - è nel mondo e allo stesso tempo è il mondo nell’occhio, è cioè il medium attraverso cui l’immagine accade nella sua falcata finale, un volo in picchiata.
Il sistema di permuta, di concentrica, spire a sostanza variabile che procedono nel tempo e fermano ogni volta combinazioni di senso, spazi nel falso movimento cinematografico, si accende nel niente delle tenebre; ed è rumore e bagliore di temporale, di materia neutra in ebollizione, da cui nasce Inyan, prima pietra in atto di modellarsi, e poi si scompone negli elementi per configurare il mondo, e in combinazione con il precipitare delle stelle, gli uomini usciti dalle caverne e disseminati sulla terra. E dal racconto indiano intorno a un fuoco, Spira mirabilis passa alla constatazione del filmico, delle sequenze a brulicamento spinto, alla libera associazione delle immagini, dei luoghi, che è prerogativa tanto più del documentario, svincolato dalla sanzione narrativa e appunto libero di presentare, presentificare le cose e il proprio essere rappresentativo, quello che Heidegger chiama un “asserire conforme”, al referente, ammesso che ci sia, la cosa, e non sia invece tutto a-referenziale.
È tutto qui il film, nel suo essere una rappresentazione del tutto (visto, ripreso in quanto infinita apertura alle eventualità, anche e soprattutto a quella di cadere nel nulla): cioè la verifica della convertibilità dell’essere e del nulla che scandisce la libertà di ogni ente (una singola unità di mondo considerata nella possibilità, nella sua aspettativa di vita), di ciò che è manifesto e quindi di ciò che si può dire (estetizzare) a proposito delle cose manifeste. Là dove (magari in un intermezzo posto tra una conversione e l’altra, spira appunto, che è il centro, cioè il transito, del film) il tutto è un concatenamento spirali-forme, legate imprescindibilmente tra loro (derivate da loro) da aperture sulla materia comune che di volta in volta prende fattezze diverse. Le forme sono griglie di contenimento di sostanza e senso che si aprono, si liberano alle altre forme attraverso un’infinita catena di sema (di cui le meduse scarlatte, disfacentisi e passanti all’infinito nell’altro sé, sono esemplari) che presenta ogni volta nuove sedimentazioni, combinazioni, sequenze recanti in sé il seme del mondo. Ma il concatenamento è stratificato, profondo: coinvolge le cose e le immagini che se ne hanno, e le immagini delle immagini che si hanno sulla scorta delle cose, in una concentricità anche sinottica, cartografica, se si vedono sullo schermo gli altri schermi, le altre cornici: i quadri di una lingua misteriosa che esprime la libertà dell’essere e il pericolo del nulla.
Perciò la materia oscura, Inyan, in transito metonimico (tra i sinonimi e le ripetizioni del tutto), e di tropi infiniti, passa alla terra, al marmo; e da un’apertura sui blocchi marmorei caduti al suolo, sostanza del rigenerarsi delle statue del duomo di Milano, si arriva all’abbattimento degli alberi aperti all’essenza longilinea del marmo e delle statue, nella densità dell’atmosfera, che è un imbrunire, cielo terso, un canto di sola voce, la monodia indiana transitata ora nei boschi intorno alle officine, cioè prima occorrenza di quello che poi si sgranerà in ospedale, davanti alle incubatrici (“soffi il vento; acqua profonda; li sento nella mia anima; alberi alti, caldo fuoco...”) o nel finale di Kubota, il ricercatore che aveva straziato tre meduse scarlatte per verificarne la rigenerazione. E proprio il canto aveva officiato il rito dello strazio, perchè in effetti non scempio ma gioiosa celebrazione della ri-nascita nelle incubatrici dell’acquaio. Il suono era stato percussione su lamiera; poi, con le bacchette e i dispositivi di misurazione, inveterata riprova tonale della materia appena forgiata, soffio sui tamburi, e subito fusa con il fruscio del vento fuori, del fumo fuori dai fumaioli, con lo sferragliare del treno, il fischio dai vetri della sera, che inizia il sottofondo di elettronica ambientale, ciò che era stato nei bip degli strumenti di misurazione cardiaca e ora torna impronta sulla neve, volto statuale, roccia, scrosciare d’acqua corrente.
300 Miles is a film that tells about distances. Orwa al Mokdad, the filmmaker, comes from Daraa, the hub of the March 2011 uprising. Like many young people from his generation, he cannot go back to his home town. The closest he can get inside Syria is to rebel-held Eastern Aleppo. The closest he can get is to a computer screen where he watches the innocent gaze of his eight-year-old niece Nour dialing in from Daraa. Through home-made videos uploaded for her young uncle she points out at “the destruction that is happening in Syria”.
Here's Daraa, southern Syria, a city where children do not go to school anymore. Instead, they watch their fathers dressed in military fatigues embracing kalashnikovs to protect their homeland against the brutality of a regime aiming to kill anyone who's not sharing his political views.
Here's Aleppo, northern Syria, a city that has been divided and destroyed by war and hatred. His young students who used to protest peacefully for human rights and a more dignified life now have to leave the university campus to extremist groups wanting to transform a place for knowledge into a place for submission.
In Daraa, Nour hangs out with her little portable camera to show Orwa the remainders of life. “You see, uncle, the tree that you used as a swing is no longer”.
In Aleppo, Orwa's restless camera follows a group of peaceful activists left alone with their ideals and very few other things: cigarettes, coffee, and a big disillusion vis-à-vis those who encouraged “the peaceful revolution”...Enthusiastic Western activists, NGOs, the facade of several governments, a high-principled yet totally paralyzed public opinion..those who supported the revolution until it fitted a nice TV shot, colorful street parades and chants, witty slogans and dances..until the revolutionaries seemed to be “like us”, no beards and secular-looking.. until it was convenient to invite these youth to drink tea and eat petit fours at a two-day workshop hosted in a five-stars hotel. Orwa's camera promptly captures the gaze of Adnan, one of the “respectful”, peaceful activists, while throwing a poster of a feel-good, dialogue-oriented conference on the floor, before being obliged to leave Aleppo with his comrades for the unknowns of exile.
Nobody can bear this hellish Aleppo, divided into opposition, regime, anti-regime, anti-opposition and god knows what. Nobody but Abu Yarub, a commander from the so-called “Free Syrian Army” that people barely remember. Orwa's camera patiently approaches him, trying to establish a dialogue with him. “Why are you still here, what are you fighting for”, he asks the stubborn commandant-in-chief who looks more and more like a Don Chisciotte fighting for an idea: the original, genuine idea of the revolution. But fighting whom? Fighting for what?
300 Miles is a film about distances. Not only geographical distances. Not only the distance dividing Orwa from little Nour, from his home town, that the magic of technology can bring closer, ghosts on the screen, blurred pixels animating the filmmaker's desire of homecoming.
A human distance. A distance marking the new geography of Syria. How far from each other are people like Abu Yarub, Adnan, Orwa himself? How far is the idea of a revolution which used to unite them all under a common ground, a shared ideal? How far is 2011 from the dark times that we are currently experiencing?
How far away is the time when we used to call it a “spring”; when we used to salute the energy of these grassroots movements and cherish their desire to change their world, our world? 300 Miles hints at this distance. A distance from an idea of a revolution which we ourselves, NGOs, respectful public opinion and governments, used to support until it was comfortable to do so, and which now we have left alone. Faraway, so close, Orwa al Mokdad's camera restlessly registers this failure: the failure of the images that have desperately tried to convince us spectators of the genuine face of an uprising. Nour is left alone uploading pixels and pixels of surreal daily life in Syrian, while Abu Yarub still fights against windmills, whether under the name of Isis or that of Bashar al-Asad. Adnan and his friends leave silently, walking toward exile, while Orwa's camera stays steady, trying to capture whatever life is left in his country descending into hell.
François Truffaut ha appena fatto in tempo ad esprimere un pensiero a voce alta, ricordando la lentezza di Vertigo, che Alfred Hitchcock lo incastra subito, fulminandolo con lo sguardo. «Esatto, ma questo ritmo è perfettamente naturale, perché raccontiamo la storia dal punto di vista di un uomo emotivo. Le è piaciuto l’effetto di distorsione, quando Stewart guarda nella tromba delle scale del campanile; sa come è stato fatto?». La risposta di Truffaut non tarda ad arrivare: «una carrellata indietro, combinata con un effetto di zoom in avanti».
Era dai tempi di Rebecca che Hitch aveva in mente di realizzare questo particolare effetto visivo. «Già quando stavo girando Rebecca, nella scena in cui Joan Fontaine sveniva, volevo mostrare che provava una sensazione speciale, che tutto si allontanava prima della caduta». Ma all’epoca c’era un problema da risolvere: «Restando fisso il punto di vista la prospettiva deve allungarsi». Il tempo passa e il problema trova la sua soluzione una quindicina di anni dopo, in Vertigo, grazie a dolly e zoom usati simultaneamente. Un modellino della tromba delle scale appoggiato orizzontalmente per terra: carrellata-zoom sul piano.
Una cinquantina di anni dopo il film di Hitchcock, un giovane filmmaker austriaco, Johann Lurf, ha ripreso in mano questa soluzione tecnica, riducendola a soggetto di un suo film, Vertigo Rush. Una corsa vertiginosa. Mentre la macchina da presa si muove, arretra o avanza sulle rotaie del carrello, le lenti dello zoom si attivano modificando il nostro angolo di visione. L’effetto è spiazzante: l’inquadratura sembra quasi immobile, eppure assistiamo ad un’amplificazione, una distorsione della profondità di campo. La prospettiva insomma si allunga o si ritrae a seconda del movimento combinato, in avanti o indietro. Lungo i 19 minuti di film, Lurf forsenna temporalmente questo “effetto vertigo”, esplorandone tutte le potenzialità. Con un’acredine e un’attenzione “strutturalista”, gira il film in una sola ripresa, pianificando con un computer il tempo di esposizione dei fotogrammi: si passa da 1/25esimo di secondo a 30 secondi. Transitiamo dal giorno alla notte in 19 minuti. Il risultato è un’alterazione qualitativa dell’immagine. Un lavoro di accelerazione e compressione temporale inaudito, capace di captare tutta l’instabilità della luce fissata su pellicola 35mm.
Girato in un paesaggio boschivo, Vertigo Rush somiglia a uno di quei gesti compiuti nel paesaggio dagli artisti di Land Art. Un’esperienza telescopica, in cui la variazione e la ripetizione di un gesto tecnico articolano la nostra percezione del paesaggio, permettendoci di testarne i limiti, lavorando su una serie successiva di sfasature temporali. Risultato: il sito, da luogo arcadico, luminoso, comincia a perdere definizione, si sfalda. La continua accelerazione dovuta al lavoro di time-lapse, trasforma lo spazio in un ambiente cromatico: la luce si altera, giunge a noi modulata dalle nuvole, fino a venire divorata, dando luogo a pattern monocromi verde, rosso, fino al nero: il bosco si trasfigura. È la notte che avanza. Lo spazio si deforma, gli alberi sembrano porsi lateralmente, creando un corridoio naturale per semplice capriccio ottico; col buio i tronchi si trasformano in pareti marroncine poste ai lati di uno spazio profondo, cieco. Finiamo in una vera e propria esplosione di luce bianca, in un crescendo di onde sonore, un riverbero elettronico che ricorda - è fin banale ricordarlo - Wavelength di Michael Snow.
Insomma, una macchina compie esercizi fisici all’aria aperta. E a pensarci bene, forse in Vertigo Rush, come nei romanzi di Raymond Roussel, in Alfred Jarry, come in <------> o La Region Centrale di Michael Snow, questa macchina è celibe. È una macchina impossibile, inutile, che non ha uno scopo preciso se non quello di captare vibrazioni atmosferiche, o magari di essere «vista, nello stesso tempo, nella prospettiva immediata come immagine sessuale, e nella prospettiva anteriore come figurazione del Tempo».
Filmare delle intensità luminose. Oppure, un amplesso. Michael Snow non ha mai fatto mistero del suo interesse per il sesso. «Wavelength literally "cums" at the end: the last thing you see is liquid», argomenta in un’intervista con Scott MacDonald. Vertigo Rush, con quel suo movimento percussivo in crescendo, fino alla scarica luminosa finale, non risulta estraneo a tutto questo.
In un questionario su Wavelength, alla domanda: perché un film di 46 minuti? Snow aveva risposto: «Nice Fuck!» Vertigo Rush ne dura 19. Resta ugualmente memorabile.
Nota:
Selezionati per anni al Milano Film Festival, i film di Lurf sono stati mostrati nel 2015 a Filmmaker Festival, in un programma curato da Tommaso Isabella.
Per Hitchcock, si veda F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche, Parma, 1977; sui tempi di esposizione della pellicola, rimandiamo a S. Payne, “Sequence”, #1, no.w.here, London; per le macchine celibi, M. Carrouges, “Come inquadrare le macchine celibi”, in H. Szeemann (a cura di), Le macchine celibi, Electa, Milano, 1989; l'intervista a Michael Snow appare in, S. MacDonald, A Critical Cinema 2. Interviews with Independent Filmmakers, University of California Press, 1992; per il questionario su Wavelength, vedi S. Hartog, “Ten Questions To Michael Snow”, ora in The Michael Snow Project, The Collected Writings of Michael Snow, Wilfrid Laurier University Press, 1994.
La serata era così calda che mai avrei creduto di incontrare il cinema. E tanto meno vederlo liberarsi da delle lenti che imprigionano dei cristalli liquidi. Ma si sa, il cinema lo trovi dove meno te lo aspetti. Almeno così mi succede negli ultimi tempi. È l'ospite inatteso, delle volte mascherato, altre nascosto, che ti sembra di riconoscere in un volto illuminato su un tram che ti scorre davanti o nelle luci di una città che di notte si dissolve sulla superficie di un fiume. Così vado a cercarlo inforcando la bicicletta, invece di entrare in una sala (soprattutto ora che le arene estive sono più rare delle lucciole).
Attraversata la città, mi trovo sprofondato in un divano incassato nella piega di un sottotetto. Nel Paradiso di Feif, come lo chiamano i miei figli. Pochi metri quadri cucinati dal sole qualche piano sopra l’abitazione di un caro amico che qui organizza la sua dolce reclusione. Ogni oggetto è una traccia. Di un mondo di affetti, di un paesaggio che accoglie quel che sopravvive della sua infanzia. Pile di videogiochi, qualche volta raccolti in scrigni pop e fantasmagorici. Modellini in scala di personaggi tra i quali non ne riconosco che qualcuno di Guerre stellari. Poster di eroi digitali nobilitati da scritte autografe in giapponese. Un grande schermo al muro con tentacoli di cavi che animano scatole tecnologiche dai display illuminati. E altri oggetti dei quali non arrivo a immaginare una funzione.
Dopo deliziosi gomitoli di lana, e i miei goffi tentativi di evitare il suicidio di un gattino con colpi disordinati su un joypad, decido di abbandonare quell’oggetto vibrante, che continua ad agitarsi in modo inquietante sul cuscino di fianco, e di diventare solo uno spettatore, avvolto nelle volute del caldo, del fumo, del divano e di quelle convulsioni elettroniche che si agitano sullo schermo. Sono consapevole della mia codardia, o anche solo della pigrizia che mi porta a tradire le regole del gioco. Non sono un videogiocatore, non posso permettermi nuove dipendenze; e quelle che seguono sono solo piccole note di un occhio in astinenza che tradisce l’esperienza completa del gioco, e quindi in fin dei conti la natura di quest’opera ibrida, per ricavarne una dose di cinema.
Un’assolvenza dal nero. Poi una luce gialla, e due tendine che come otturatori oscurano ogni tanto l’immagine: un battito di palpebre, siamo dentro un occhio. Una soggettiva digitale che mima il dato biologico. E il mondo ci appare. Prima il braccio poi il corpo di una meravigliosa ragazza elettronica prende il campo. Si gira e guarda in macchina, in primo e primissimo piano si prende cura di noi, chiunque noi siamo. Il suo volto conserva tratti dell’umano, codificato da decine di macchine fotografiche che hanno avvolto il corpo di una giovane attrice e che hanno digitalizzato i suoi gesti catturando i suoi movimenti (ma tutto questo lo scoprirò solo più tardi).
Ci guarda e anche il nostro occhio si cristallizza. Polvere e granelli di sabbia incrostano la superficie dello schermo che si dichiara così l’occhio di una macchina da presa. Senza soluzione di continuità. Non ci sono stacchi. Solo precisi e continui scivolamenti fuori e dentro il nostro corpo. Siamo in una tempesta di sabbia, in una situazione di pericolo. I movimenti della ragazza si fanno più concitati, comunica con qualcuno, chiede aiuto con una ricetrasmittente, una musica sinfonica plasma l’erotismo e la malinconia della scena, di cui anche questa volta scoprirò solo più tardi il significato.
È una scena di raccordo dell’ultimo gioco di Hideo Kojima, Metal Gear Solid 5. Ora le chiamano cutscenes e la definizione che ne dà Wikipedia è troppo filosofica per non essere trascritta. È un tempo nel videogame dove il gioco si interrompe e il giocatore vede qualcosa accadere.
Ma in questo caso non è una sospensione. Perché il piano continua nel gioco come in un unico lungo pianosequenza, senza fratture di ordine estetico o di definizione grafica. Quello che sorprende sono piuttosto i ritmi, i tempi appunto di questi accadimenti, le linee dei movimenti di macchina e una drammaturgia che prende forma direttamente dal piano. O più semplicemente la libertà della visione che qui si confronta con un mondo aperto, una scena virtualmente infinita dove queste scene sono spesso nascoste, occultate come in una ghost track. Piani che potrebbero essere stati rubati a film di autori radicali che qui diventano i tasselli di una narrazione che può appassionare anche dei ragazzini.
Quando sudato come il mio personaggio mi sollevo a fatica dal divano, quel che resta è una nostalgia di cinema, e la nostalgia di un corpo che per un attimo è stato mio. Nulla come il titolo di questo gioco può descrivere questa esperienza di mancanza: Il dolore fantasma. Tecnica? Arte? Cinema? In fondo, è solo un gioco.