"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Nato a Roma nel 1968 si occupa di bla, bla, bla. Collabora con Skillweb, Lynx e altre società nel campo delle nuove tecnologie di comunicazione.
Appassionato di fotografia, montagna, ecologia e libertà, ASR, subbuteo e bicicletta, grafico e webmaster spesso per lavoro, spesso per piacere.
Tra le sue opere più importanti
Origem do mundo è una traversata, una ricerca nell’abisso che soffia sotto forma di palpito. Il vento, questo dio che spira da ogni luogo, s’infiltra tra le crepe delle rocce, bocche entro cui riformulare un suono, una lingua sconosciuta, un’impronta.
Siamo nel deserto brasiliano, luogo senza direzioni, distesa infinita sul cui strato essenziale si trovano i cosiddetti “pietroglifici”, disegni preistorici incisi sulla roccia. Si tratta di un paesaggio riconoscibile nella sua assenza, il deserto come spazio senza vita ma che si fa carico di una memoria lontana dai giorni: luogo che fa dei suoi miraggi il punto focale dell’immaginario. Batsow è un esploratore, mostra il non detto, rincorre l’aria, il disegno rupestre, ne tenta una possibile decifrazione che si allontana sempre più dal suo originale. Anche l’oralità, tramandata dai vecchi abitanti del luogo, lavora all’impossibile, all’imprendibilità della prima parola, a un mito che ritorna nell’immagine incisa: l’uomo paleolitico non ha solo visto l’animale ma lo ha raffigurato sotto forma di mostro, minacciosa bestia divina. Il segno allora, non è solo traccia ma atto, l’iscrizione non è solo un’incisione ma anche e soprattutto uccisione, sacrificio di una forma che lo sguardo cattura sulla pietra e che è rappresentazione di un’immagine divina solamente percepita e quindi immaginata.
L’origine è quel «grido della voce che sembrava la voce della luce» dice Pimandro, visibile solo nella distanza: è per questo che Origem do mundo scava nel tempo, allontana il mondo dal suo progressivo deterioramento per recuperane una forma primigenia, una memoria mitica, mai tradotta definitivamente e proprio per questo ancora intatta e lontana. Non è un caso - se di luce si tratta - che questo film faccia parte del progetto curato da Bressane il cui titolo rimanda non solo alla lingua portoghese ma anche e soprattutto al linguaggio del “cinema [che] è la musica della luce”, a questa riformulazione continua, tentativo perpetuo di traduzione e di salto oltre il confine della cosa vista per lasciare che si imprima la traccia sottile di un’immagine (o forma) luminosa venuta da lontano, il vento di un dio remoto: Tela Brilhadora da «brilhador, brilhadora» (sostantivo) = che brilla.
Così come in Batsow anche nel film di Rodrigo Lima, O espelho (che fa parte anche quest’ultimo di Tela Brilhadora), si tratta di scavare in profondità, attraversare la materia fluida di una superficie riflettente e di passare dall’altra parte. Anche Lima lavora sull’insufficienza del linguaggio di fronte alla cosa divina: non a caso la prima immagine è la punta rocciosa di una montagna in Rio de Janeiro chiamata Dito di Dio a cui segue l’indice di un uomo puntato in su.
È la natura nelle vesti di una donna ad annunciare poi la sua presenza con un grido che smuove il presente e risveglia l’attenzione di un pittore intento ad osservare la propria immagine riflessa in un specchio, tela vertiginosa attraverso la quale poter catturare l’altro da sé, un minuscolo riflesso luminoso. È un fantasma la donna che appare dalle acque del lago, è uno spirito che dà voce alla natura panica del mondo: ruggisce, urla si muove convulsamente come in preda a un dio incarnato in lei, immagine sfocata, ombra vagante per il bosco che trascina l’uomo in profondità, al di là del lago, specchio d’acqua, fino a scomparire. Lo specchio, questo vetro che ha struttura molecolare liquida, è un fluido: una volta passati si transita nel tempo, in questo continuo muoversi e approssimarsi a un’immagine capovolta dove il dentro ora risulta essere proiettato in superficie. Meccanismo alchemico, proiezione cinematografica, secondo Jean-Luc Nancy «l’immagine fa uscire la cosa dalla sua semplice presenza per metterla in presenza, in praesentia, in essere-davanti-a-sé, rivolta verso il fuori»; di conseguenza, «ogni immagine è una mostranza […] è dell’ordine del mostro», minaccia divina che si palesa in avanti: è questo abisso profondo che, cieco nel suo brancolare nel vuoto, ad un certo punto torna in superficie per mettersi in luce, immagine smagliata dalle frange delle acque, dal rimbalzo infinto degli specchi.
Lucido. Preciso nel suo essere sbilenco. Rigoroso. Questo strano film realizzato da un artista, Carlo Gabriele Tribbioli e da un giovane filosofo e documentarista, Federico Lodoli, ha un’idea di partenza semplice: il frammento 53 di Eraclito - Pòlemos [la guerra] è padre di tutto e re di tutti: alcuni fa divinità, altri uomini; alcuni liberi, altri schiavi. La guerra. Considerata nella sua necessità e nella sua dimensione universale, dove ogni punto è inizio e fine della stessa circonferenza (per rimanere a Eraclito) e ogni combattente carnefice e vittima della stessa guerra. Qui, in particolare, è quella che da molti anni (dagli anni ‘90 almeno, quasi continuativamente) è stata combattuta a suon di macete e di massacri in Liberia, dove i due autori del film sono andati a più riprese per incontrare il "Generale" Rambo, Joshua M. Blahyi, Carl Darlington, Aron O. Kennedy, e gli altri guerriglieri che hanno offerto la loro testimonianza raccontando quanto hanno vissuto, da una parte e dall’altra, durante il periodo 2011-2014. Tanto è particolare la natura del conflitto raccontato da chi ha tagliato teste, teso imboscate, bruciato villaggi, combattuto in quel lembo di terra, tanto svanisce il peso della particolarità dissolvendosi e espandendosi in ogni altra particolarità, nel racconto filosofico (di stile platonico), nel mito. Polemos...
Qui non si tratta di andare a cercare l’esotismo del Cattivo (o il suo facile paradosso), come per esempio nei film di Joshua Oppenheimer, che non rischiano nulla e capitalizzano al massimo la forza (esotica - esogena) del soggetto scelto, facendo il loro spettacolino grazie al sangue versato e soprattutto grazie a chi lo ha fatto versare. In Frammento 53, al contrario, non c’è nessuna prurigine morale (né in un senso, né nel suo contrario), talmente è dentro la cosa, e al di là di ogni esotismo, davanti o dietro la camera. Frammento 53 fa sua l’astrazione che è propria delle immagini, e a suo modo tratta le parole (presenti quasi in forma aforistica) come immagini. Fa capire che lo sono senza ambiguità. E non volendo persuadere rinuncia alla retorica. È un film piuttosto neutro, in questo senso. Quel Neutro che manca alla lingua italiana, ad esempio, svanito col Latino, che ha fatto sí che restasse una opposizione binaria (quindi chiusa) a dominare tutto. Le sue qualità comunque (quelle del Neutro) muovono questo film dal profondo, dando l’idea che lo spazio dietro la camera sia molto più grande di quello davanti. È un film ossessivo, in cui si sente la forza dell’ossessione. Ed è bello quando si lascia andare, quando la tensione si spegne nei fuochi della festa, quando a un tratto il cinema si libera delle parole, divinità schiave. Lì, forse, inizia un altro film.
Poiché ogni anno il numero di opere prime horror supera l’umana immaginazione, non è facile districarsi nella fittissima rete di appassionati (più che registi). Qui segnaliamo l’inedita provenienza turca di Baskin, primo lungometraggio di Can Evrenol (un prolungamento dell’omonimo premiatissimo cortometraggio del 2013). Non solo per l’orrore che si diffonde da quelle parti, ma perché finalmente un giovane regista, smessi i panni dell’apologo rurale ancora molto in voga nel cinema turco (come se non fosse possibile trasferire certa selvaggia capacità filmica delle zone più interne al fuoco cittadino), di quell’orrore fa l’horror necessario. Poliziotti corrotti presi nella rete di un mucchio selvaggio dedito a pratiche cannibali in attesa dell’arrivo dell’entità superiore. Nulla di particolarmente nuovo, se non che in Evrenol per fortuna non c’è sociologia né metafora (come direbbe il nostro Naked – si veda su questo numero il suo intervento sull’ultimo Straub), solo il desiderio di incanalare i personaggi in un piccolo e stringente abisso filmico, dove non c’è uscita perché semplicemente non esiste entrata, e il sistema di controllo delle vite altrui è in realtà un varco aperto su ciò che in se stessi è già agonizzante: il famoso poliziotto in noi, che merita di vedersi strappare il cuore a morsi e le proprie viscere date in pasto a una torma di esseri urlanti in disfacimento. La cosa interessante di Evrenol è che, a differenza del molto elogiato Abluka del connazionale Emin Alper, non crede nel legame fra contenuto e sua elaborazione paranoica (che è la deriva didascalica che appesantisce il plastico film di Alper), ma solo nel lato paranoico di una sceneggiatura giustamente inesistente, concentrata a estrarre dati dal puro desiderio. Evrenol è un bambino che gioca alle sue passioni, perciò è più estasiato da un movimento di macchina che dalla coerenza di scrittura, meglio una bella cascata di cupa emoglobina che la ricostruzione certosina del sistema di vasi sanguigni. Volete vederci un riferimento all’attuale caso della martoriata Turchia? Ebbene, c’è sempre più intervento politico nella fisica di una deriva senza esclusione di colpi, che nel dato reale sapientemente registrato e ricostruito. E poi, proprio quando meno te l’aspetti, il demonio si reincarna proprio nel poliziotto giovane e inesperto, anche se, a ben vedere, la sua pattuglia è rimasta sperduta ai bordi della strada e tutti i poveri poliziotti impantanati in un incubo collettivo che si ripete all’infinito.
C’era una volta la questione del rapporto fra realtà e sua messa in scena, fra enormità del reale e praticabilità fiction del documento, fra visibile e invisibile. In discussione erano due imperfezioni: la realtà stessa e l’occhio umano: l’umano e il disumano. C’erano, conseguenti, i concetti di memoria, testimonianza, storia. C’era (come si sa, ma è sempre meglio ricordarlo) prima di Auschwitz e dopo Auschwitz.
È probabile che nel luogo dove più crudamente si è posto il problema del rapporto fra immagine e verità, vi sia un indice storico (nel senso benjaminiano) che permetta di far luce sull’oscura matassa del presente, e viceversa qualcosa di troppo oscuro allora che potrebbe risultarlo un po’ meno adesso.
È quello che fa László Nemes, ungherese classe 1977, col suo primo lungometraggio Son of Saul (Saul Fia, 2015). Nemes prende di petto la questione mettendo in scena, proprio immaginando, uno dei più turpi, forse il più turpe, fra i crimini nazisti, ossia la creazione del Sonderkommando, squadra di ebrei addetta a portare altri ebrei direttamente nelle camere a gas, alla pulizia di quel che restava dei loro corpi, al trasporto delle carcasse nei crematori e pronta, a sua volta, a essere gasata e sostituita ogni quattro mesi. Nemes sceglie l’estate del 1944, quando ad Auschwitz si dovette ‘far fronte’ all’arrivo di 450.000 ebrei ungheresi ammazzandoli il più velocemente possibile, e quando alcuni membri del Sonderkommando ebbero il coraggio di scattare delle foto del genocidio e di farle arrivare alla resistenza polacca e, infine, di organizzare una rivolta.
La prima immagine è una sfocatura del famigerato bosco di betulle antistante le camere della morte. Dopo la messa a fuoco, appare Saul Aslander, un membro del Sonderkommando, intento a fare quello che fa tutti i giorni, portare a morire un convoglio di nuovi arrivati. Da qui, togliendoci il fiato, si diramano una lunga serie di piani sequenza che ne seguono le operazioni attorno ai morti, l’incredibile evento di un ragazzo sopravvissuto alla camera a gas (subito strangolato dal medico di turno), l’ossessione di Saul di seppellirlo secondo il rituale kaddish, i rischi enormi che corre, la sua partecipazione agli scatti delle famose fotografie e alla rivolta finale.
Nemes si posiziona alle spalle del suo personaggio, si attacca alla nuca di Saul e lo tallona nel suo disumano andirivieni nei meandri del dispositivo di morte. Tutto quello che vediamo è un frammento (spesso fuori fuoco), scorci di corpi nudi accatastati o trascinati via, violenze di ogni tipo, i prigionieri al lavoro, l’arrivo continuo di nuovi deportati. Fuori campo il terribile manto sonoro di cui tante volte abbiamo letto (la babele di lingue yiddish ungherese polacco greco e gli ordini continuamente urlati in tedesco). Il girone infernale di Auschwitz, perfettamente ricostruito, ci viene tuttavia restituito per irruzioni, lampi, squarci che si imprimono come ferite. Nemes insiste su ciò che nell’immagine, e dunque nell’occhio che osserva, è inadeguato. La questione è capire in quale punto è in grado di ritrarsi dalla sua stessa assuefazione e addirittura trovare la forza per ritrarla (non solo foto, i membri del Sonderkommando scrissero e riscrissero diari che nascosero fra le ceneri dei morti). Nemes allora interroga il rapporto fra la forma stessa dell’occhio (attenzione, il film è girato in 35mm) e il processo di selezione intrinseco all’immagine, per cui non tutto può essere visto e mostrato, ma proprio su questo non si fonda l’atto del vedere (sto dicendo che nello statuto stesso del fondo del fondo più nero c’è una luce? Si, i nazisti, stupide bestie, non se lo immaginavano). È la doppia situazione visiva dei membri del Sonderkommando: resi ciechi, spogliati di tutto, anche dell’anima, gli viene chiesto di lavorare a cancellare le tracce dell’orrore cui partecipano. Può nascere uno sguardo dalla somma di due diversi accecamenti? Quel che il cinema può fare, sembra dire Nemes, è di usare la propria parzialità, e diremmo proprio, impotenza, per restituire quella condizione di spoliazione e di non-sapere che fondava il processo di disumanizzazione nazista.
Una versione più lunga e leggermente diversa di questo articolo è apparsa sulla rivista Alfabeta2 il 27 gennaio 2016 e si può trovare qui http://www.alfabeta2.it/2016/01/27/laszlo-nemes-limmagine-inadeguata/