"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Nato a Roma nel 1968 si occupa di bla, bla, bla. Collabora con Skillweb, Lynx e altre società nel campo delle nuove tecnologie di comunicazione.
Appassionato di fotografia, montagna, ecologia e libertà, ASR, subbuteo e bicicletta, grafico e webmaster spesso per lavoro, spesso per piacere.
Tra le sue opere più importanti
La superficie è l’orologio, colmo di led, tendente all’infinito o a Moebius come all’ossessiva chiusura di uno spazio irreversibile; un caos del flusso dei pensieri ricalibrato sulla filosofia del nulla. È il Big-Bang (o il bug) del digitale, il momento in cui la conversione sarà compiuta, il punto di partenza per Isiah Medina nella sua vorticosa razionalissima deriva, sulle classi, sulla povertà, sulla contemporaneità, sul movimento, sul baratro, sull’inconscio del reale. Il cut diventa improvvisamente arma eterea e trasformativa, invisibile come tutti coloro che stentano a sopravvivere nel vortice truce del terzo millennio; le immagini sbocciano in un flusso d’integrazione della nuova soggettività tecnologica, fusione di ogni codice, formato e supporto. La narrativa è affidata alla documentazione (al rapporto tra i due amici che lo stesso Medina condensa prima in ritratti e poi in monologhi), ogni fotogramma ed ogni suono sussiste a se stesso perchè continuamente scorporato dal contesto, ma parte del dis-ordine della vita tra politica, amore, scienza e arte. Lo spazio politico del cinema allora non è altro che l’atto dello scarto umano al codice binario, del ciò che ancora sfugge. Esistere necessita l’autodeterminazione, e se il nichilismo della determinazione esterna a noi stessi pare definire il segno di un’umanità distante e di una era che si chiude, è il momento di aprire nuove strade, di tentare nuovi esperimenti. Proprio come fa questo 88:88.
Il flusso è indefinibile e strutturato sull’addizione simbolica di fotogrammi, tendente all’infinito come alla reiterazione, in cui lo spazio del reale si struttura nella definizione sempre diversa dell’intervallo. Il mondo sopravvive e si incunea nello spazio tra zero a uno, come tutto lo spettro dei colori si determina tra il nero ed il bianco. Ci sarà sempre qualcosa che resta fuori dall’inquadratura o che viene tagliato al montaggio, sta alla soggettività trovare un ordine o almeno restituire una libertà nelle associazioni. In un’epoca in cui siamo costantemente riflessi e ripresi in immagini, la separazione suono-immagine risponde e coincide a quella della realtà, la stessa tra due persone; la definitiva messa in dubbio dei sensi attraverso strumenti linguistici del mezzo resi antropomorfi. Il dubbio e la ragione nel separare ciò che apparentemente è (col)legato, regolano continuamente il rapporto soggetto/predicato/oggetto formando la stessa frattura in cui nasce il cinema ed in cui esso possa esperire una nuova forma cartesiana di prova dell’esistenza.
88:88 cerca essenzialmente se stesso in una serie infinita di segni (filosofici e matematici soprattutto) in cui il cinema costantemente si interroga sul proprio statuto, partendo dalla vita nuda, dal materiale sedimentato nell’anima di un gruppo di ragazzi oggi, attraverso una continua sintassi di base dell’immagine nel/per il futuro. Un film che è a suo modo pieno di errori, un esperimento sempre sull’orlo del fallimento, un’odissea che ambisce a far vedere esattamente ogni cosa che vedremo, segnando al tempo stesso grammaticalmente il punto zero su cosa il cinema potrebbe essere, o almeno quanto e come potrebbe ancora essere. Probabilmente è e sarà altro ancora, anche rispetto al lavoro teorico di Medina stesso, perchè l’intimità è reale, strappata alla vita nel margine tra la frustrazione e la tristezza. L’immagine, nella sua continua rifrazione digitale, distrugge il codice per restituire l’atto dell’esistere. E così anche il digitale nelle sue continue ellissi d’umanità, pare aver trovato la sua dignità, per una delle primissime volte. Lo spazio è colmo, il tempo è definito. Suonerà la sveglia dell’infinito, dobbiamo scendere in strada e ritornare a guardare.
Film di otto ore proiettato su schermi disposti in circolo, ognuno dei quali ne rimanda uno spezzone differente che s’interrompe per lasciar spazio a un altro, scelto secondo un ordine casuale, diverso da quelli proiettati sugli altri schermi: forse ha poco senso chiedersi cosa Singularity sia, se film o videoinstallazione o altro, dato che il suo senso sembra porsi non tanto nel suo essere quanto nel suo farsi, nel movimento fluttuante e vorticoso che circonda lo spettatore da parte a parte, come in un abbraccio. (Del resto, qual era per de Oliveira la "singolarità di una ragazza bionda" se non quella, appunto, di non essere, per farsi pura figura, immagine fantastica, ricordo di un sogno, riflesso del desiderio; e in questa molteplicità di attributi intangibili – molteplicità slegata da tutto tranne che dallo sguardo del suo amante-osservatore che le conferiva esistenza – si affermava la sua impossibilità a cristallizzarsi in una forma unica, singolare).
Ma al contempo c’è la sensazione che, nel passaggio delle immagini da uno schermo all’altro, qualcosa si perda negli spazi vuoti fra gli schermi, o che il film continui a essere proiettato sul nero interstiziale, invisibile ai nostri occhi, come se volesse sottrarsi. La singolarità si dà proprio nella sottrazione, nel venir meno di uno spazio, di un legame, di un’affezione che leghi i corpi, i significanti, le immagini. Ecco quindi spalancarsi una voragine dinanzi al nostro sguardo, e prendere le sembianze di una miniera d’oro, esemplare oggettivazione della tensione tutta occidentale a esaurire tutto ciò che è in superficie per poi, insaziabilmente, scavare il nulla – il nulla della fine della storia, dell’insensatezza della produzione capitalistica, della mancanza di senso nel linguaggio.
L’investigazione nomade di Serra pare trovare nell’eclissi del sacro l’origine di questo vuoto e tocca le tracce della sacralità perduta – la gloria dell’oro, la santità delle puttane, il mistero del disfacimento del corpo e della materia, l’aspirazione a perdurare oltre la consumazione e il decadimento, l’amore omosessuale, o gerontofilo, in pura perdita – ma il suo tocco è una delicata carezza, come a voler sfiorare le immagini con gli occhi, ben sapendo che la paura mangia l’anima (ci sono tutti qui, Fassbinder, Syberberg…). Nello schermo che introduce Singularity viene proiettato una sorta di trailer, una selezione di alcune immagini del film, con l’aggiunta, in sovrimpressione, di un drone che sembra mimare questo gesto carezzevole: la macchina guarda ma non giudica, scivola sulla superficie del mondo senza violentarla e si limita a rifletterla in immagini. E le immagini sfuggono a tutto, al nostro giudizio, alla staticità di una qualsiasi definizione dell’essere, alla mummificazione in categorie ordinatrici. Possiamo cercare di inseguirle, senza ovviamente raggiungerle: ma in questo moto, nella ricerca di un’immagine che sia rimando a un qualcosa al di fuori e al di là di noi, possiamo trovare una singolarità altra, e sentirci meno soli.
Un «cinematic territory», lo definisce Kamal Aljafari. Una stratificazione di spazi e tempi nella dis-installazione del passato e del presente, nella rivendicazione - muta, silenziosa, al più sussurrata - di un tempo e di uno spazio espansi che non siano altro che quelli del cinema, della sua memoria e dei suoi luoghi/set ri-collocati da un occhio ri-filmante in costante ri-posizionamento all’interno dei fotogrammi. Accade in Recollection, nella sua forma più pura, ovvero contaminata, testo di approdo del lavoro del filmmaker palestinese. Film, cinema, che cerca una sua collocazione fuori/dentro uno schermo, ritorno alle origini, esperienza onirica, sensoriale, tattile. Toccare con l’occhio i muri, le pietre, la polvere, i fili dell’elettricità così sospesi e ricorrenti a di-segnare ulteriori traiettorie nel corpo dell’immagine, gli oggetti, le rovine di ambienti senza nome (si tratta di Jaffa, ovvero di qualsiasi posto devastato dalla storia nel mondo o ri-scritto dal passaggio del cinema - ma non è poi così indispensabile conoscere il pre-testo, vale a dire rimuovere dalle immagini anche attori dei film di guerra girati nei decenni passati in quella città, che ha portato Aljafari alla realizzazione di Recollection). Bisogna lasciarsi bagnare (non per nulla il film si apre sulle onde e sul mare) dal flusso visivo, toccando anche i suoni, i rumori, le voci che dialogano con immagini che non appartengono loro, in un sincrono/fuorisincrono che amplifica la domanda, la curiosità, rinviando all’infinito la risposta: da dove provengono quelle immagini?
Si cammina dentro esse. C’è, in Recollection, la concretezza dei fantasmi, la concretezza del camminare nelle immagini, dei ‘passi-sguardi’, dei loro inciampi e delle loro soste (dei piedi e degli occhi, per lampi di montaggio o di andature deambulanti cercando dettagli da isolare penetrando il corpo dell’immagine), del procedere come in un luogo sacro di memorie dove si entra in punta di piedi. E il viaggio porta proprio in una chiesa, mentre dei passi fuori campo invitano a compiere fisicamente quell’esperienza soggettiva. Così come un altro rumore, come di qualcuno che scava/picchia con uno scalpello, entra poi in campo, ma negando ancora una volta la sua provenienza. È, nella sintesi estrema, il segno, il gesto poetico di Aljafari, che scava in ogni fotogramma, ri-modella, cancella e mostra; manipola immagini in un inserto creando un mosaico da sdoppiare, moltiplicare che fa venire in mente le tavole di Rorschach; fa ripetere, nel montaggio, una camminata, un gesto alle figure anonime (infine, forse, individuate nel poema intimo scritto dal regista al termine del film) che transitano nelle inquadrature, esprimendo, lì e altrove, il senso e la concretezza di un passage à l’acte interrotto e ripreso.
Film-approdo, Recollection, che ha i suoi germi in altri lavori del regista, The Roof (2006) e Port of Memory (2009). Perché il cinema di Aljafari è fortemente politico sempre partendo dall’esperienza personale, dalla soggettività. Quel che in Recollection, dal punto di vista della/e memoria/e familiare/i (la famiglia, esule nel 1948, si fermò a Ramle, quella paterna, e a Jaffa, quella materna), non viene spiegato, aveva infatti trovato narrazione in quei testi precedenti, già fondati - oltre che sulle testimonianze di parenti e altre figure in uno sminamento del documentario e della finzione, che sarebbe approdato a uno sminamento delle immagini stesse in Recollection - su alcuni elementi per Aljafari imprescindibili: la persistenza dei muri filmati; le case e la questione delle abitazioni sottratte ai palestinesi; certi luoghi di Jaffa usati in Port of Memory le cui immagini sarebbero state ri-usate identiche in Recollection; e sempre in Port of Memory squarci di film guardati in televisione che diventano a tutto schermo - non a caso testi come Deltaforce 1 e Deltaforce 3 con Chuck Norris, espressione di quel cinema hollywoodiano made in Golan e Globus che sarebbe stato cancellato in Recollection.
Le ossessioni di Kamal Aljafari sono magnificamente resistenti. In opere dove il gioco della memoria e delle fonti stratificate costituisce una re-collection anche del/nel/dal cinema del regista.