"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Dis-install cinema! dicevamo appena due numeri fa. Quello che fino a poco tempo fa era l’ormai riconosciuto travaso di cinema nei musei e una spinta uguale e contraria da parte delle tendenze arty più disparate a ‘rivedersi’ al cinema (con l’unico vantaggio di finirla con l’equivoco che il cinema sarebbe un’arte - le minuscole sono volute – e non qualcosa d’altro la cui natura prima è che non gli è data possibilità di definizione), comincia a conoscere un’ondata apparentemente indifferente ai due percorsi (perché non ci sono più percorsi, ma solo ramificazioni) e semplicemente, pervicacemente solo concettuale. Non una nuova arte concettuale per carità, ma solo una gioventù impulsivamente attratta dall’esperienza fisica pura del fare cinema, e per questo sinceramente manierista, che si permette pure una certa consistenza narrativa, laddove poi ogni lato romanzesco viene prosciugato (e spesso proprio ‘freddato’) dal desiderio della performance (hanno già pure i loro padri ideali, da Raya Martin a Ben Rivers). Cos’altro è un film come Mimosas di Oliver Laxe se non un’ingorda salita al cielo, una messa a rischio pura, anche del senso (e spesso del montaggio, costretto a delle ellissi siderali – che peraltro salvano il film da se stesso – perché semplicemente la troupe, sottoposta a uno sforzo improbo rinuncia, abbandona, non filma più), cui vorrebbe veder corrisposta nello spettatore un’altrettanto fredda riconoscenza per tanto epico spreco nella peggiore delle ipotesi, e una disfatta ipnotica, un salto telepatico oltre le immagini nella migliore. Ora, non è che con questo ci si voglia limitare alla reprimenda nostalgica di sentieri simili e già ampiamente battuti, ma con ben altro istinto cinematografico, o comunque con una idea di avventura che partiva dal cinema e trovava nel cinema ogni sua ragione d’essere (vedi, che so, Deliverance di John Boorman), ma solo dire che l’indubbia bella follia (che conferma quella dell’esordio You All Are Captains, forse meno ambizioso, ma più diretto, più paradossalmente libero) che guida Laxe a passare mesi fra le montagne più impervie con qualche mulo e un pugno d’uomini ossessi che portano a sepoltura un cadavere dall’altra parte del mondo, sconta l’evidente programmaticità concettuale al punto da non intendere mai come essenziali le peregrinazioni del racconto, la combustione degli elementi (acqua terra fuoco aria), la battaglia spontaneamente ingaggiata nei confronti del mondo, cui pure si affida di continuo. Per paradosso il troppo aver presente che è dell’atto del filmare che il film parla, non permette al film stesso di spersonalizzarsi fino a trovare un’idea di cinema (così come la natura non indifferente che per tutto il film pone ostacoli a essere filmata, subisce a sua volta l’attacco un po’ ingenuo di Laxe che vorrebbe darle un’interpretazione sacral-religiosa fino al divino…). Tutto questo insomma c’è, ma sottovalutato. Esattamente come gli artisti sottovalutano il cinema.
Si può essere convinti della minorità del cinema di Jim Jarmusch (Paterson ne è solo l’ultimo esempio piccolo e fragile), almeno tanto quanto il regista in questione non teme di essere calligrafico, lavorando tuttavia sulla ripetizione e, letteralmente, sulla linea di combustione con cui la parola mangia l’immagine restituendole asciuttezza. Paterson – il famoso paesino americano dove soggiornarono Gaetano Bresci e Allen Ginsberg, e a cui il grande poeta William Carlos Williams ha donato l’eternità di indimenticabili poemi (“A man like a city and a woman like a flower — who are in love. Two women. Three women. Innumerable women, each like a flower. But only one man — like a city”: già qui c’è tutto Jarmusch, con un po’ meno di poesia invero) – diventa il fulcro dell’ineffabile rapporto fra vita quotidiana e sogno, fra materia dell’immagine e metafisica della parola. Anche il protagonista (è quel ragazzone un po’ sexy un po’ stonato perfetto in serial come Girls e un po’ meno nella coda stellare Abrams/Lucas) fa di nome Paterson, è un autista di autobus, si sveglia tutte le mattine alla stessa ora accanto alla sua giovane moglie leggermente border line, va al lavoro, scrive poesie prima del primo giro e durante la pausa pranzo, torna a casa per cena, porta a spasso il cane e si ferma per una birra nel pub del paese prima di andare a letto. Per una settimana. Dove non è che non accada nulla, ma è il nulla che accade sufficientemente misterioso da ispirare poemi anche a una bambina dodicenne, o a puntellare il paese d’una inquietante proliferazione di gemelli, e siccome non c’è speranza, allora c’è speranza (anche quando il simpatico cagnolino si mangia il quaderno con tutti i tuoi poemi, riducendo in briciole anni di accorte e vertiginose linee di parole). Anche per il cinema. È che l’elegiaco apologo, benchè affabile e giusto, manca di sconcerto, in questo d’altronde coincidendo con l’impianto narrativo a voler essere buoni, denunciando altrimenti l’incapacità a scardinare se stessi nel film a voler essere cattivi. (Chissà perché poi Jarmusch sembra prendersi più rischi col documentario su Iggy Pop Gimme Danger, dove genialità a parte dell’artista, l’incursione continua di fasci d’archivio dà finalmente l’impressione di una maggiore veemenza e una certa voglia di liberarsi e librarsi in volo). La verità è che Jarmusch teme l’imperfezione, e se come a Paterson col suo quaderno gli dicessero che una catastrofe ha bruciato tutte le copie di tutti i suoi film, al contrario del grande poeta di provincia, a cui basta la vista su una cascata e l’incontro surreale con un misterioso viaggiatore giapponese per ricominciare a scrivere, si suiciderebbe.
Poiché ogni anno il numero di opere prime horror supera l’umana immaginazione, non è facile districarsi nella fittissima rete di appassionati (più che registi). Qui segnaliamo l’inedita provenienza turca di Baskin, primo lungometraggio di Can Evrenol (un prolungamento dell’omonimo premiatissimo cortometraggio del 2013). Non solo per l’orrore che si diffonde da quelle parti, ma perché finalmente un giovane regista, smessi i panni dell’apologo rurale ancora molto in voga nel cinema turco (come se non fosse possibile trasferire certa selvaggia capacità filmica delle zone più interne al fuoco cittadino), di quell’orrore fa l’horror necessario. Poliziotti corrotti presi nella rete di un mucchio selvaggio dedito a pratiche cannibali in attesa dell’arrivo dell’entità superiore. Nulla di particolarmente nuovo, se non che in Evrenol per fortuna non c’è sociologia né metafora (come direbbe il nostro Naked – si veda su questo numero il suo intervento sull’ultimo Straub), solo il desiderio di incanalare i personaggi in un piccolo e stringente abisso filmico, dove non c’è uscita perché semplicemente non esiste entrata, e il sistema di controllo delle vite altrui è in realtà un varco aperto su ciò che in se stessi è già agonizzante: il famoso poliziotto in noi, che merita di vedersi strappare il cuore a morsi e le proprie viscere date in pasto a una torma di esseri urlanti in disfacimento. La cosa interessante di Evrenol è che, a differenza del molto elogiato Abluka del connazionale Emin Alper, non crede nel legame fra contenuto e sua elaborazione paranoica (che è la deriva didascalica che appesantisce il plastico film di Alper), ma solo nel lato paranoico di una sceneggiatura giustamente inesistente, concentrata a estrarre dati dal puro desiderio. Evrenol è un bambino che gioca alle sue passioni, perciò è più estasiato da un movimento di macchina che dalla coerenza di scrittura, meglio una bella cascata di cupa emoglobina che la ricostruzione certosina del sistema di vasi sanguigni. Volete vederci un riferimento all’attuale caso della martoriata Turchia? Ebbene, c’è sempre più intervento politico nella fisica di una deriva senza esclusione di colpi, che nel dato reale sapientemente registrato e ricostruito. E poi, proprio quando meno te l’aspetti, il demonio si reincarna proprio nel poliziotto giovane e inesperto, anche se, a ben vedere, la sua pattuglia è rimasta sperduta ai bordi della strada e tutti i poveri poliziotti impantanati in un incubo collettivo che si ripete all’infinito.
Ecco un film con i caratteri dell’insopportabilità. Ambizioso, sfrontato, megalomane. Brady Corbet, che ha recitato finora per una sfilza di cattivi maestri (Haneke e Von Trier dovrebbero bastare, ma si fa notare la sua presenza nel peggior film di Mia Hansen-Løve finora, Eden), non si fa pregare: Sartre, Hitler - o chi per lui - e, udite udite, Bresson, Pialat, Olmi, Kubrick: e il bello e insopportabile è che potrebbe pure avere ragione. Fa parte dei nuovi ossessi del controllo e del ripotenziamento pellicolare (70 e 35mm), Paul Thomas Anderson il capostipite, e fa il paio con l’altro debuttante 2015 Laszlo Némes, il quale però salta l’ostacolo – le origini dei fascismi – ed è già al punto di non ritorno, Auschwitz, così che sembra addirittura difficile immaginarlo a un secondo film, mentre Corbet, più baldanzoso, ne potrebbe avere pronti subito altri dieci, è evidente, non ce ne libereremo più (vorrei per ora non mettere in questa lista Miguel Gomes, il cui desiderio di smisuratezza, a detta di molti fallimentare, ha in questo eventuale fallimento la sua salvezza; Tarantino? Lui è diverso, fa cinema). Stutturatissimi, pochissimo avventati, molto cinici. Ovvio che i loro personaggi siano irrimediabilmente affetti da megalomania e che il film si pronunci a sua volta a favore di un cinema che crede talmente nel cinema (o, peggio, di esserlo) da insistere ciecamente sulla potenza dello sguardo e sulla sua imposizione (anche nel contenuto) allo spettatore. Il problema però, come si anticipava sopra, è che tutta questa claustrofobica certezza sui limiti dell’immagine, è purtuttavia costellata di ragionevoli zone d’ombra, di brevi incrinature nel sistema che, lavorando al suo inconscio depotenziamento, fanno ancora sperare in una possibilità di cinema. Soprattutto, il continuo rilancio fra aggrovigliarsi oscuro e non detto della Storia e il sottrarsi opaco della tela di luce che avvolge il film (senza dimenticare il cupo tocco di minaccioso ulteriore riverbero della musica di Scott Walker, che tanto ha ispirato anche David Bowie), dà invece l’idea di un’ossessione in fondo estranea alla sua stessa progettualità, e pronta invece a destinazioni meno precostituite e imprevedibili. E laddove vengono raggiunti inenarrabili massimi di immoralità filmica (degni degli indegni carrelli segnalati per sempre dal già compianto Rivette) – è il caso dello stacco sul capezzolo della giovane istitutrice che sporge dalla camicetta bianca trasparente e che, così tagliato, dovrebbe significare le già ben mature perversioni del giovanotto futuro leader assetato di sangue – ebbene, sono talmente inenarrabili da indugiare, a loro insaputa, sul loro oltrepassamento in una zona vicina al celibato assoluto, una zona bianca come una mammella turgida. Tutto il resto è altrettanto manipolatorio (le turbe incestuose, gli edipi galoppanti, le umiliazioni religiose, le metafore in forma di favola) e altrettanto così perversamente sicuro della propria matematica, da richiedere forse da parte nostra l’indulgenza necessaria ad attendere i prossimi fatidici dieci film.