"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

SPECIALE Discovery One

Daniela Turco

Tout va bien

Tra i film presentati alla Quinzaine, mai forse come quest’anno autentico contro-canto del Festival di Cannes, per densità dei materiali, a fronte di una selezione ufficiale alquanto sbiadita, il film portoghese di Pedro Pinho, A Fábrica de Nada, sembra più di una promessa per la libertà di linguaggio e per il campo di ricerca, che, come era già accaduto nel 2015 con As Mil e Uma Noites di Miguel Gomes, si confronta, con rara concentrazione in tre ore di durata, con la realtà violenta e diffusa della crisi economica contemporanea, che ovunque in Europa e nel mondo produce macerie e che viene qui inventariata, con immaginazione e rigore, nella particolare prospettiva di una fabbrica di ascensori in crisi, situata nel bacino industriale di Lisbona.  

Quali sono i materiali che si incontrano in questo film, ellittici, familiari e nello stesso tempo inconsueti, per la carica teorico-discorsiva che li muove da una zona remota del tempo, rimettendoli in gioco come in un ritorno del rimosso? Parola, lavoro, corpi, amore, lotta, desiderio, disoccupazione, paura, sono alcuni degli elementi che si combinano tra loro in un’armonia dissonante nel ritmo cadenzato di un film che si prende il suo tempo senza fretta, riuscendo ad assemblare insieme stralci in off dalle pagine di Ai nostri amici (2014), pamphlet antagonista del Comitato Invisibile, con il pensiero filosofico di Simone Weil; il proto-punk dei Death con i lunghi detour in barca sotto la pioggia nella waste land che costeggia il Tago; Tout va bien e Passion come doppia matrice originaria del set, con la riappropriazione liberatoria, alla fine, dei lunghi piani-sequenza straubiani e del canto dell’arrotino in Sicilia!.

Sembra che l’idea originale di Jorge Silva Melo da cui proviene il film, fosse quella di convertire la storia di una fabbrica e degli operai in lotta in un musical, ma poi, tra le mani di Pedro Pinho il film prende un’altra strada, nonostante qualcosa rimanga di quel progetto iniziale, anche se l’irruzione improvvisa di un genere in un altro non costituisce probabilmente il maggior interesse del film. Dell’autogestione di una fabbrica si era anche occupato nel 1979 il cineasta spagnolo Joaquim Jordà, che con il folgorante Numax presenta... aveva esplorato la potenziale flessibilità del documentario, realizzando un’opera militante e atipica su una fabbrica occupata e sugli operai in lotta, su cui, a distanza di venticinque anni, era poi ritornato, con Veinte anos no es nada, riprendendo i fili interrotti di quell’esperienza e di quelle persone. Forse qualcosa del coraggio e della sperimentazione politica di Jordà è consapevolmente passato dentro A Fábrica de Nada, che del resto emoziona proprio per quel continuo va e vem, che ne sostiene la struttura, quel cortocircuito che rischiosamente implica continuamente la vita, l’amore, con il lavoro, che si materializza anche come segno nel paesaggio e scena dominante e primaria, a partire dalle strutture industriali che si vedono profilarsi fuori dalle finestre della casa di Zè, uno degli operai, per proseguire oltre nel defilè di capannoni, container, ciminiere delle fabbriche che penetrano fin dentro la città, con il loro carico ambivalente di lavoro e di morte. Quanti paesaggi sfigurati come questi, dove i prati sconfinano con le case e con i fabbricati industriali, esistono ancora come presenze spettrali e in dismissione, non solo in Portogallo, ma anche a Taranto, a Piombino, a Porto Marghera, e oltre? Uno dei punti di forza di A Fábrica de Nada consiste proprio nel dare spazio a queste immagini mute che si concatenano e confluiscono in un inventario impressionante e brutale delle mutazioni dei luoghi e, conseguentemente, delle persone, osservate nel tempo fermo del capitalismo estrattivo, dell’apocalisse sostenibile e della crisi permanente. All’inizio del film, a casa di Zè, l’unico degli operai ad essere seguito e filmato fin dentro la sua intimità personale e perciò politica, una telefonata dalla fabbrica, che sollecita la sua presenza immediata, interrompe la coppia mentre sta facendo l’amore, e lungo tutto il film, come già avveniva in Passion e in Sauve qui peut (la vie) di Jean-Luc Godard, viene ampiamente indagato questo nodo misterioso e molto stretto, già osservato da Simone Weil nel primo volume dei suoi Quaderni, tra amore e lavoro, e più in particolare, tra i gesti dell’amore e quelli del lavoro, che, come sosteneva Isabelle Huppert in Passion, sono, in fondo, gli stessi, anche se non hanno necessariamente la stessa intensità.

A Fábrica de Nada, non ha solo il merito di portare alla luce e a un’analisi critica pezzi di realtà distopiche in atto, ma anche quello di liberare ancora una volta la potenza della parola operaia (gran parte dei non-attori del film sono lavoratori industriali), tanto nelle lunghe sequenze in cui i singoli raccontano la propria esperienza di lavoro e di vita, tanto per dare una esemplificazione istantanea e plastica di ciò che significa biopolitica, quanto nei discorsi più analitici sulla condizione operaia nell’era della globalizzazione, sulla situazione sociale oggi in Portogallo, in un rapido avvitamento su sparizione del lavoro, povertà, alienazione, merce. Di colpo ci si ritrova spiazzati di fronte a un lessico troppo in fretta derubricato come obsoleto, che chiede invece con urgenza di essere rimesso in questione e in circolo, perchè ne va delle nostre vite.

Meno seducente e sensuale rispetto al pastiche polimorfo declinato da Miguel Gomes in As Mil e Uma Noites, A Fabrica de Nada, si muove però in quella stessa direzione, che prevede il tempo lungo di una lotta continua contro la paura, per una sistematica riappropriazione della gioia, che, come l’amore, è una parola politica. Ce n’est qu’un début....

 

 

Carlota Moseguí

La superheroína del Cáucaso

En el seno de una pequeña comunidad judía de la República de Kabardia-Balkaria, denigrada a diario por los kabardinos, un espíritu rebelde ha nacido en la capital, Nalchik, para romper las reglas. La indomable Ilana todavía no conoce la magnitud de su fuerza. Pero sabe, con certeza, que su vida no será como la titánica supervivencia de quienes forman parte de esa minoría humillada en el norte del Cáucaso. La protagonista del sobresaliente debut de Kantemir Balagov es un ser de una intensidad inagotable, incapaz de controlarse a sí mismo; una fiera que detesta que sus familiares y su novio (no judío) la apacigüen hasta amainar su poder. En ese lugar infernal, inhabitable para los judíos, donde cualquier muestra de flaqueza es castigada con la muerte, una adolescente desatará el caos en la comunidad al presumir de su libertad.

 

La primera vez que la Rosetta rusa de Balagov aparece por primera vez en escena presenciamos la represión más incómoda de toda cinta. Así, descubrimos a Ilana jugando con su hermano a un juego salvaje que da por finalizado en el momento en que el menor advierte que ésta desea violarle. En su superlativo homenaje a los hermanos Dardenne, Balagov plasma el tempestuoso tour de force que llevará a cabo Ilana sin la menor intención de juzgar su falta de límites, pues la desinhibición de la primogénita será lo único que salvará a la familia de su desdicha. De este modo, Closeness deviene un relato sobre la empatía – o ‘cercanía’ tomando su título original (Tesnota) –. Producida por Aleksandr Sokurov, esta deslumbrante ópera prima narra el destino de una superheroína que despliega todo su poder para ayudar a otro ser humano.

 

Desde el inicio, Ilana se manifiesta como el único miembro de la comunidad judía que posee la fuerza suficiente para salvar a su hermano menor, y a su prometida, de un secuestro orquestado por kabardinos durante la celebración de su boda. Mientras ese suceso traumático – tan habitual a finales de los noventa en la región donde nació Balagov – revela el lado más oscuro y egoísta de todos sus seres queridos, Ilana terminará por asumir la que siempre fue su misión en esa comunidad: convertirse en una mártir.Balagov nos remite al pasado sangriento del Cáucaso, con su puesta en escena del odio, la violencia, la frustración, el antisemitismo o la misoginia que rodean a esa superheroína, que a pesar de no temerle a nada sólo se derrumba en un único episodio de la ficción: el momento en que su novio y sus amigos le muestren escenas de las ejecuciones reales de Chechenia. 

 

 

Lorenzo Esposito

Lei

Che dietro l’esordio di questa giovane regista iraniana ci sia Jane Campion (produttrice esecutiva) è fin troppo evidente. Siamo dalle parti di In the Cut per la capacità di riversare sul film (sia proprio sulla patina che sull’andamento) l’incarto e incanto mentale della (?) protagonista in modo da ottenere una struttura fatta di pieghe e soglie che si rincorrono e insieme è come se volessero fare dell’immagine l’astrazione del vedere. Non è solo una procedura contenutista derivata dall’inclassificabilità gender dell’eroina quattordicenne J, ma proprio una concezione auto-ipnotica per cui la filigrana del film è fatta dell’incrocio instabile di sguardi su questo evento (scegliere il proprio sesso) ambiguo e per nulla chiarito che aleggia fra i personaggi.

Sorprende dunque il modo ritmicamente complesso con cui Ghazvinizadeh tratta la messa in scena, conducendola lentamente in uno stato di sospensione quasi catatonica nel più lungo pranzo di famiglia che sia dato vedere da tempo al cinema (compreso di infiniti preparativi). Chi è lei? La domanda produce un reticolato di rapporti e fatti quotidiani volutamente (e per contrasto) lenti e naturalistici, un mondo di apparenze  e occulte ancestralità che si amalgama e deborda in una tragica cecità collettiva. Da un lato scambi e occhiate sottotraccia, svincoli e vincoli famigliari sottaciuti; dall’altro il peso della casa madre Iran ottuso tanto quanto quello della casa ospitante Usa. Tradizioni intese come conflitto permanente ma tutto rivolto all’interno, per nulla interessato a processi trasformativi e dunque completamente deciso a rimuovere la scelta o il momento della scelta di J. Di nuovo, non è semplice linea narrativa, ma suo prolungamento quasi visionario a inventare un’atmosfera liquida, fredda, attonita. Curioso che ci si lamenti della lunghezza del pranzo (quasi tutta la parte centrale del film) proprio non vedendone la crucialità (anche metaforica!) nel costituirsi attorno a una pura deriva dei sentimenti. Semmai andrebbe verificata la tendenza neanche troppo sorniona della regista ad avere uno stile, cosa mai buona (soprattutto nell’accezione inglese di film stilish), seppure qui mitigata dal processo fluttuante con cui si ha l’intuizione di trasformare il film in un limbo inquieto continuamente sedotto e incrinato dal suo stesso dilemma. Chi vivrà vedrà.

 

 

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