"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

MOVING - Metaphors on Vision (Stan Brakhage, Jean-Daniel Pollet, Julio Bressane, Jean-Marie Straub, Yōji Yamada, Paulo Rocha, Manoel de Oliveira)

Monday, 23 August 2021 15:41

Erik Negro

L’occhio perduto

 

“Imagine an eye unruled by man-made laws of perspective, an eye unprejudiced by compositional logic, an eye which does not respond to the name of everything but which must know each object encountered in life through an adventure of perception. How many colors are there in a field of grass to the crawling baby unaware of “Green?” How many rainbows can light create for the untutored eye? How aware of variations in heat waves can the eye be? Imagine a world alive with incomprehensible objects and shimmering with an endless variety of movement and innumerable gradations of color. Imagine a world before the “beginning was the word.”

 

 

Quasi mezzo secolo fa Stan Brakhage sconvolgeva, forse per sempre, la teoria sul vedere. Metaphors on Vision (1963) è un atto scritto di sensibile audacia rivoluzionaria, di puro ribaltamento di ciò che noi consideravamo il guardare (e il guardarsi) ben oltre la teoria del cinema. Un superamento dei limiti dell’occhio, di quelli che per convenzione imponiamo a esso, un oltrepassare ogni presupposto stabilito come mediatore dell’esperienza, un riscrivere le regole (anzi, il negarle in maniera più assoluta). Esiste solo la percezione, e la sua fallibilità, qualsiasi altro reticolato di significazione a cui eravamo/siamo abituati deve implodere. Cos’è il verde dunque? Bella domanda direbbe Stan, ma perché chiedercelo? Siamo vissuti, e forse ancora viviamo, in una grande parabola del pregiudizio sul/nel vedere. Nella grande parentesi tra significante e significato, nella relazione arbitraria tra lo sguardo e l’oggetto, nella mancanza più assoluta di naturalità con il reale. Il nostro occhio è intasato, sovraccaricato, ipereccitato. Come Saussure rifiutava il linguaggio veicolo di rappresentazione universale di tutte le cose, ancora più estrema per Brakhage è questa mancanza di identità tra ciò che osserviamo e la nostra approssimativa catalogazione di esso, il significato che cerchiamo continuamente in qualsiasi immagine. Eccolo dunque il mondo prima di “l’inizio era la parola” di Brakhage; quello che sperimenta il segno, lo rivendica, liberandolo da qualsiasi rapporto possibile con il significato. Immaginare tutto ciò significa tornare all’origine, al primordiale, all’attimo esatto in cui un occhio potesse guardare l’erba, interrogarsi sulle tonalità, esplorare la molteplicità di colori e luci, non pensando a ciò che fosse verde. Tutto questo senza l’accenno alla parola, possibile solo al bimbo che non ha bisogno di chiederselo, la sua purezza è quella dell’occhio e nell’occhio. Bisognerebbe forse tornare all’inizio del secolo scorso (o alla fine del precedente), quando in pochi anni l’uomo positivista vide svanire in un attimo gran parte delle certezze su cui aveva creato la sua realtà modulata (e pure la società tutta); tra Einstein, Freud e Darwin tutto crolla, la realtà oggettiva improvvisamente scompare con la struttura, non resta così che sperimentare la sua astratta relatività (fisica ed esistenziale). Con il modernismo crollano le convinzioni, e l’opera di Brakhage (dalla forza d’urto forse paragonabile solo a quella di Pollock) squarcia definitivamente l’immagine che noi potevamo aver in testa. Frammentazione, distruzione, espressione. Nello spazio del montaggio - e nella sua narrazione - il visionario di Boulder esprime il concetto nella sua più completa radicalità. Parla di percezione delle immagini fisse disposte su celluloide, come se l’occhio abitasse una dimensione diversa da quella percepita, negando inizialmente il movimento nell’esperienza sensibile della visione, poi però accettando il flusso quasi come atto di fede (quello dell’occhio, che ora abita temporalmente quello spazio).

 

Emerge lampante nella teoria (e forse ancor di più nella pratica) di Brakhage un approccio che oltre alla semiotica deve guadare alla psicanalisi come alla filosofia, allo strutturalismo come alle avanguardie, mai però spostando l’accento sull’asse vedere/ascoltare/sperimentare; l’avvicinamento è puro, primitivo, quasi ingenuo ma è il processo di liberazione dell’occhio che risulta terribilmente complesso. Per noi, per il mo(n)do di sovraesposizione delle immagini a cui siamo abituati, tutto ciò può apparire quasi illogico, forse antilogico nell’anteporre la pura esperienza sensoriale al bisogno autoalimentato di concetto. Il processo di decostruzione deve prima coinvolgere, in un certo senso, l’osservatore per essere in grado di percepire l’opera (o addirittura la natura stessa). Dovremmo cancellare i confini, ridiscutere il senso del nostro passaggio tra gli enti del pianeta, porre la transizione come scopo continuo del nostro conoscere senza sovrastrutture. In tutto ciò il cinema di Brakhage è essenzialmente atemporale, sospeso tra passato e futuro, un occhio inquieto all’interno dell’esistere, uno sguardo teso alla continua ricerca di una memoria visiva epifanica quanto tormentata. Così, d’un tratto, emerge l’esperienza del ricordo. Come se, riavvolgendo il nastro alla base, quel verde realmente smettesse di esser verde per trasformarsi in tonalità pura, percezione, emozione. Ma quale può esser il punto di frattura - anche temporanea - delle nostre convenzioni? “…. non già una mia immaginazione di quel campanile, bensí il campanile stesso, che, ponendomi così sotto gli occhi la distanza nello spazio e negli anni, era venuto, in mezzo alla luminosa verzura e con tutt’altro tono, così scuro da sembrar quasi soltanto disegnato, a iscriversi nel riquadro della finestra...? Potrebbe essere il bambino che Brakhage cercava? Forse. Un secolo, e un paio d’anni, prima della metafora sulla visione ci fu la ricerca del tempo perduto. Proust e la Recherche, l’esperienza umana forse più drammatica nel tentativo di ritornare a una memoria, a una sensazione, a una percezione. Ritrovare il tempo è un impresa, forse impossibile, ma per cui vale assolutamente la pena vivere (proprio come il ritrovare l’occhio, perduto).

 

E come si ritrova (il tempo) al cinema? Bypassando lo straordinario - meriterebbe un viaggio a parte, tutto suo, per invenzione tecnica e libertà di sguardo - esperimento di Raúl Ruiz legato alla pura esperienza proustiana, probabilmente solo nel tentativo folle e disperatissimo del rimontaggio (qui declinato casualmente in dieci atti, rivisti in dieci giorni). Nel 1988 Jean-Daniel Pollet inaugurava questa stagione con un film che potremmo definire miracoloso; Contretemps ancora oggi in un certo senso è un unico nella storia del cinema, rarissimo nel suo processo di distruzione, deriva e ricomposizione degli elementi tratti dalle - già straordinarie - opere precedenti di uno dei più geniali e meno considerati cineasti di sempre. Pollet traslando tra Méditeranée e Bassae, tra Pour mémoire e L’Ordre (solo per citare quelli che più emergono) scrive il suo testamento in moviola, un giocattolo vorticoso, una riflessione sulla ripetizione dello sguardo che gioca con il tempo, donando una nuova possibile genesi spiraliforme alle proprie immagini. Sei anni prima Godard sperimentava qualcosa di diverso in Scénario du film Passion (1982), dove a rimontarsi non è il film, ma l’idea stessa di esso. JLG lavora sul grado zero del cinema, e dello sguardo, torna allo schermo/pagina bianco/a, compie l’ardua opera di auto-rimozione di immagini e figure che ha creato. Il vecchio saggio di Rolle si configura demiurgo delle forme di passione, riflesso nello schermo la sua ombra abbraccia i personaggi, li chiama a sé. Passion è scomparso, rimangono questi embrioni di narrazione che vagano nel video, elementi del paesaggio riflessi dal lago ed esistenti nell’atto di chi li ripensa (a partire dal loro autore). Così l’evocazione dell’immagine - anche della propria - è un processo sempre più misterioso d’illusione e trasformazione. Simile forse a quello che Júlio Bressane compie su se stesso nel sublime Rua Aperana 52 (2012). Qui la ricerca dello sguardo perduto è una questione assai privata. In tre movimenti (fotogramma, fotodramma e fototrama) il film affronta la prospettiva materica del ricordo e della durata, quasi retroattiva nel cercare il limite del segno di un’infanzia e lo sguardo correlato a esso; Bressane stratifica le vibrazioni di quelle fotografie filmate, aprendosi poi verso i luoghi, disegnandone una mappatura sensibile anzitutto per il proprio occhio, per finire nell’esotismo di un oriente a colori. Le forme della retrovisione. Compone invece elementi e tracce di esperienza personale (come della fallacia di un fragile presente) lo splendido Festival di Jean-Claude Rousseau (girato tra il 2000 e il 2010) che riunisce in un unico film cinque cortometraggi presentati in precedenza come opere autonome: Lettre à Roberto, La Nuit sans étoiles, Fauxdépart, 301, Mirage. Sono vedute, visuali, visioni, che si modulano sempre più verso una percezione dello sguardo curioso, quasi primitivo e prettamente fenomenologico. Una finestra sulla realtà, sullo scorrere delle cose e sul tentativo di osservarne ogni frammento e piccolo scarto; ogni movimento si sente così ampliato, soprattutto quello della memoria. Chissà quanti pomeriggi invece passava alla finestra Stephen Dwoskin, alcuni di essi rappresentati nel sognante Trying to Kiss the Moon (1994), un viaggio nello specchio di quella memoria sospeso tra la bellezza dellarchivio personale e l’inafferrabilità di registrare il proprio passaggio (partendo dal senso della malattia). Un collage di percezioni attraversate dalla sua camera a mano vorticosa e pulsante, un paesaggio interiore che incornicia una vita. Un altro processo di materializzazione, un obiettivo che valica la finestra per cercare una diversa mobilità prospettica, perdendo spesso fuoco e inquadratura. Nel movimento fisico ed emotivo Dwoskin attraversa il presente dopo aver riflesso il passato, muove la macchina da presa all’interno della propria mente definendo le ombre di frammenti sempre più labili, si spinge verso un oltre che non pare il futuro ma solamente una distanza imponderabile. Un’invocazione alla luna, a ciò che possa ancora contenere il nostro occhio, alle stelle a cui tenta ancora di tendere.

 

Proprio nel 2000 usciva un’opera che condensa molti di questi discorsi, un film di cui anche qui (ne scriveva Lorenzo Esposito1) si è parlato come atto fondamentale di passaggio tra i due secoli, i due millenni. Con As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty Jonas Mekas riscrive le coordinate della sua vita, dei suoi incontri, dei suoi passaggi condensando tracce di altri film ora fuse ed espanse in un diario magmatico e multiforme, riflessivo e gioioso. Un’opera fiume di rulli che paiono infiniti, spesso commentati in un secondo tempo dalla voce del genio lituano, e che sembrano proprio guardare chi li guarda. Impossibile da definire, basterebbe probabilmente partire dal titolo, mai così programmatico e potente; parla di movimento, dell’avanzare, del mentre di un atto che fa parte anche del vedere, e poi di questa bellezza occasionale che colpisce e stordisce, un raggio di sole riflesso su ciò che si ama e di cui si teme l’oblio. La perdita di un amore, di uno sguardo, è ciò invece che animerà Jean-Marie Straub a lavorare sul dolorosissimo Kommunisten (2014), l’estrema ricerca di colmare una distanza oramai inestinguibile. Un film che va oltre l’idea del testamento proprio perché percorre traiettorie distanti quarant’anni le une dalle altre, valicando tempi e testi, nell’ottica di una resistenza continua e del suo possibile superamento. C’è la politica, c’è l’arte, ma c’è soprattutto la vita da evocare, quella della sua Danièle. Sguardo d’amore, lettera d’amore, atto d’amore, l’andare nei luoghi, nei loro luoghi, quelli che possiedono la memoria di una visione. Simili sentimenti forse ci potrebbe raccontare Yōji Yamada di Tora-san, Wish You Were Here (2019), e soprattutto del suo rapporto con Kiyoshi Atsumi, lo straordinario Tora-san di una delle più straordinarie e sorprendenti epopee di tutta la storia del cinema. Dopo 47 film e la scomparsa dell’eroe Torajirō a Yamada non resta che rievocarlo con il potere del cinema, con una dolcezza e una malinconia senza pari. Tora torna nella sua piccola casa, alle sue piccole e grandi disavventure, alla ricerca infinita di un amor perfetto, all’amore di tutti coloro che con lui hanno percorso quasi mezzo secolo; un gioiello commovente, una meditazione sulla grazia come sull’orrore del tempo, un’elegia per un mondo perduto.

Restano due film per chiudere questo viaggio, citati proprio qui tempo fa da Roberto Turigliatto2e3 come “frutto del lavoro di ripensamento e di riscrittura”. Film, come scriveva, solo apparentemente «testamentali», “anzi animati da un’energia che saltella e danza agilmente ora giocosa ora disperata sui dislimiti di metamorfosi cosmiche”. Paulo Rocha nel 2013 presenta il suo testamento (questo sì) postumo; Se Eu Fosse Ladrão, Roubava, terminato poco prima di salutare il nostro mondo appare come un altro miracoloso gesto di ricapitolazione in mutamento perpetuo. Un sublime addio, nato dall’impossibilità di proseguire la sceneggiatura originale e quindi innestato con il corpo e l’anima di film precedenti. Fantasmi e memorie, Isabel Ruth (ri)appare sulla stessa spiaggia di Mudar de vida, in un unico collage plastico e pittorico che descrive come meglio non potrebbe i vertici del modernismo. L’anno dopo Manoel de Oliveira torna invece alla nemesi del film impossibile, in O Velho do Restelo (2014). L’oceano è forse quello di Amor de Perdição, da lì emergono Le Lusiadi, mirabilmente intrecciate con Don Chisciotte. Riflettono Camões e Castelo Branco riflettere/si su una panchina, come Doré e Kozincev di cui si intravvedono le immagini; emergono altri fantasmi poi, quelli degli stessi film di Oliveira in un canto tutto iberico che guarda all’Atlantico, alla potenza del ripensare e riscrivere, di giungere lì dove nessuno è mai arrivato. Pare lo stesso Cervantes colloquiare con il centenario di Porto, nel dialogo continuo della provvisorietà, della caducità, dell’impossibilità appunto.

Ma c’è ancora un film, fuori da questa lista (im)possibile, che viene prima - o forse dopo, chi lo sa - tutti questi. Visita ou Mémorias e Confissões è opera ancora per me indecifrabile, distante e inclassificabile rispetto a tutto ciò che ho visto. Oliveira ci accompagna nella sua casa/universo, poco prima di lasciarla, e ogni passo è rivelazione. Si e ci racconta, e con lui come con nessun altro conosciamo noi stessi, la nostra infanzia, la prima volta del vedere. Comprendiamo in un attimo cosa possa significare la ricerca del nostro sguardo negli occhi di chi amiamo, capiamo cosa implichi fissare le anime attraverso la loro corporeità cristallizzata in immagine per l’ossessione di perderle, immaginiamo che qualsiasi distanza sia colmabile solo con l’atto del puro pensiero evocativo. Poi compare una stanza, dolorosa e in ombra completa; un luogo misterioso e miserabile, simile forse a un buco nero, la camera dei “film mai fatti”. Un contenitore di embrioni, di tutto il nostro desiderio rimasto nel limbo, dei nostri amori verso la perdizione, delle nostre notti insonni di finzioni e di paure davanti all’unico sentimento inspiegabile che coglie ogni possibile scritto. Basta un attimo, forse prendere la strada a caccia di uno solo tra tutti gli sguardi, per riscoprire il tuo, filmarlo e possederlo così da poter ri-montare un frammento della tua vita, ri-vivere, ri-fiorire. Un sogno forse, un altro film, o l’unica cosa che ora davvero ‘vorrei’. In quella camera dunque respira l’universo tutto, e ci siamo noi, il nostro sguardo (finalmente) finito a nero, incuriosito e solitario.

 

 

In questo processo di visione - anche un po’ divisivo e dissociato rispetto a questa calda e stramba estate - in cui mi sono imbattuto nell’ultimo mese, ho cercato un altro occhio, o almeno ho provato a purificare i miei ormai stanchi, rossi e un po’ lucidi. La camera dei film mai fatti (e mai visti) allora è l’inconscio del vedere, lo spazio-tempo in cui perdere qualsiasi propensione al concetto, nel lasciarsi infinitamente fluttuare. Aprire gli occhi nel buio implica aspettare con fede una luce che qualcosa possa illuminare. Basterebbe una lampada? Forse solo un pizzico di coraggio, di flagranza, di libertà. Eccolo, infine, il bimbo di Stan (e sarebbe così bello poterlo essere...)! 

 

 

 

1http://filmparlato.com/index.php/numeri/12/item/255-cinema-psychodrame-1-jonas-mekas

2http://filmparlato.com/index.php/speciali/speciale-film-senza-futuro/item/48-o-velho-do-restelo-manoel-de-oliveira

3http://filmparlato.com/index.php/numeri/2015-04-11-00-47-1/item/58-visita-ou-memorias-e-confissoes

 

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