"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

GET BACK (to the abyss) - Il buco (conversazione con Michelangelo Frammartino)

Wednesday, 18 May 2022 15:16

Naked

Tra il mondo e quello che non è ancora

 

 

Le figure umane dei tuoi film, nel Buco il pastore morente ma anche gli speleologi, autori di un’impresa poco conosciuta e ricordata, ma lo stesso vale per i protagonisti dei film precedenti, li definirei “i dimenticati”…

 

 

I dimenticati è innanzitutto un titolo leggendario, girato da De Seta nel ’59 in un posto a me molto caro che è Alessandria del Carretto.

È vero che l’impresa dei ragazzi del ’61 è stata dimenticata, ma una cosa che mi ha colpito è che gli stessi protagonisti non pensavano potesse essere raccontata, né lo avevano fatto. Questo è l’opposto di quello che viviamo oggi, dove una cosa sembra non abbia dignità se non è resa pubblica in tempo reale, al contrario il loro averla considerata vita, esperienza frontale che si vive pienamente, questo impregnarsi dell’esperienza e rimanerne appagati, mi è sembrata una lezione importante.

È chiaro che questo ti pone davanti a un problema: se loro non lo hanno raccontato che diritto ne ho io di farlo? Però io penso che i miei film non siano propriamente dei racconti, mi ha sempre incuriosito e interessato la sfida dell’evento, cercare di realizzare degli accadimenti cinematografici che dallo spettatore possano essere vissuti come esperienza.

 

 

Trovo che lo spazio ne Il buco sia uno spazio cosmico, nonostante il film vada nella direzione opposta, all’interno della Terra che noi abitiamo. Però appunto il buco, anche come spaccatura, è uno spazio che ti permette di inquadrare dalle viscere al cielo, il fuoricampo è infinito. Mi sembra che in questo senso anche rispetto agli altri tuoi film siamo in una dimensione molto più grande.

 

 

Io sono partito dalla sorpresa di scoprire in uno spazio che pensavo di conoscere - perché io il Pollino l’ho attraversato tante volte, ho amici.. - e che invece ignoravo una parte importante e che questa parte è lo sconosciuto per eccellenza, perché la dimensione sotterranea è lo sconosciuto per eccellenza. Questo oscillare tra familiare e sconosciuto era abbastanza irresistibile, il film ha preso questa piega abbastanza rapidamente cioè la possibilità di confrontarsi con questa frontiera, enorme, perché interrogare lo sconosciuto significa interrogare qualcosa che non ha una forma. Nel caso delle grotte uno sconosciuto che nessun uomo ha mai incontrato prima. È accaduto anche a me di essere il primo ad entrare in una parte di grotta, con amici speleologi che avevano individuato una nuova finestra proprio nell’Abisso di Bifurto, questa grotta verticale. In quel momento sei il primo essere umano che entra in quel posto, con la luce frontale lo guarda e battezza, come dire costringi questo informe senza misura e senza nome a diventare quel pozzo vasto che io ho definito tale, l’ho colonizzato e l’ho portato nel mondo.

Questo lavoro tra il nostro mondo e quello che non è ancora è stata la tensione di questo film, cioè l’idea di fare una progressione che ti metta in rapporto con questo fuoricampo assoluto e che in sostanza non finisce mai, perché in grotta è vero che colonizzi e dai forma però la frontiera ogni volta si sposta.

 

Il buco - Michelangelo FrammartinoIl film è punteggiato dal disegno della grotta che gli speleologi compongono man mano che avanzano, in quel modo il film prende forma…

Il punto era l’informe e l’informe ti sfugge, perché sia come filmmaker che come speleologo esplorando uno spazio punti la luce per interrogarlo ma puntando la luce ti sfugge, si sposta. Quando con Giovanna (Giuliani) concepivamo il film dicevamo che quando qualcosa si vede è troppo tardi.

Il desiderio dello speleologo sarebbe poter vedere la grotta senza di lui, perché la grotta è il luogo dove non c’è l’uomo, per questo vuole sempre arrivare dove nessuno è mai stato, ma nel momento in cui ci arriva quel posto non c’è più, non è più lo stesso, è diventato realtà. Questo film nasceva con la voglia di incontrare qualcosa di non cinematografico, di non umano anche, come inseguimento di quest’altra dimensione, con questa strana condanna di distruggerlo illuminandolo. Sicuramente anche come grande fallimento, ma la speleologia è una pratica del fallimento, quando si giunge in fondo a una grotta c’è sempre delusione non c’è euforia, non è come scalare le vette delle montagne, tutt’a un tratto esci da un meandro ed è finita lì. Se leggi i bollettini dell’esplorazione del Bifurto c’è malinconia e questo è bellissimo.

 

Si e la prende in modo definitivo. Anche se in qualche modo la grotta sfugge, ci sono posti dove l’uomo non può entrare, dove va solo l’acqua. Quello è un fuoricampo che si salva, ma è chiaro che il rilievo condanna quel luogo pieno di leggende, che loro con la luce estirpano mentre gli danno una forma scientifica. Per l’uomo è insopportabile qualcosa che non sia battezzabile, che non abbia un nome.

L’ulteriore condanna per una grotta è quando appare bella ai nostri occhi e diventa turistica. In quel caso vengono portati i faretti, arriva la luce quindi comincia a crescere l’erba e in quel momento diventa mondo, diventa realtà, non è più una grotta.

 

Hai usato la parola mondo… il buco come spaccatura non ti ha fatto pensare al mundus, a quella spaccatura che mette in contatto i vivi e i morti, in questo caso la morte dell’anziano e l’esplorazione della grotta…

 

 

Ho fatto speleologia per tre anni, quindi l’esperienza diretta ha influito più di ogni altra cosa. Mi è capitato di dormire in grotta e svegliarmi nel nero assoluto, in quel momento il fatto che la grotta coincidesse con me, che non ci fosse un fuori, è stato una sensazione molto sgradevole, uno shock, ho dovuto cercare una luce immediatamente. Questa sensazione mi ha accompagnato a lungo, mi è capitato di svegliarmi anche a Milano con questa sensazione. Da questo ho iniziato a pensare alla grotta come corpo, che ci fosse una connessione tra il nostro interno e quello della Terra che peraltro si assomigliano. Anche alcune letture hanno inciso, come Le mystère de la mémoire di Francois Ellenberger, prigioniero per cinque anni in un campo di concentramento che non potendo esercitare il suo mestiere esplorava il suo interno e si appuntava in modo scientifico pensieri, sogni. Ma innanzitutto il film è segnato dalla pratica della speleologia, che mi ha permesso di avere un approccio frontale.

 

 

Nel film lo spazio viene letteralmente penetrato, in questa discesa torna il tuo desiderio di vedere oltre quello che appare nell’inquadratura, un vedere l’invisibile attraverso la materia. Questo accadeva anche negli altri film, penso ad esempio alla polvere nella chiesa in Le quattro volte

 

 

Mi piaceva molto impossibilità di vedere, l’istinto di illuminare per vedere lì non funziona, infatti gli speleologi le prime cose che trovano sono le riviste che hanno lanciato per illuminare, che ti dice che noi continuiamo a vedere le stesse cose che senza i nostri codici non riusciamo a leggere. Quindi che un po’ il linguaggio e lo sguardo sono la stessa cosa. Però per me imparare a usare gli strumenti della speleologia era un modo per entrare nelle immagini e quindi immergersi e facendolo io lasciarlo fare anche allo spettatore.

 

 

L’immersione in qualcosa che ha un’evidente forma uterina…

 

 

Questa è una cosa che ha notato subito Renato Berta quando ha visto il trabucco, questo ingresso che era anche un ventre. Così si corre il rischio di umanizzare un po’.

 

 

Riguardo al tempo mi sembra che il film metta in contrapposizione da una parte l’epoca, la data precisa, il 1961 segnalato da riviste e servizi TV, dall’altra l’indefinitezza dell’era… Se vuoi anche il tempo della carta e quello della pietra…

 

 

Assolutamente si. All’inizio avevo paura di fare un film d’epoca, un film in costume, questo mi sembrava rischioso perché avevo paura che non potesse entrare l’imprevedibile. Al contrario scegliere di filmare in grotta solo con le luci frontali degli speleologi significa lasciare a loro la direzione della fotografia, un minimo movimento cambia l’inquadratura.

La questione è proprio quella, se da una parte c’è il boom economico, la ricerca dell’altezza, l’Italia che si rimette in piedi, dall’altra c’è lo smarrimento temporale della grotta. Forse lo smarrimento temporale è l’esperienza più forte che si prova nelle grotte, è la prima esperienza che fai. A me interessava creare un accadimento e non un racconto, anche per non tradire il non-racconto dei protagonisti. Una cosa che chiedevo agli interpreti, che sono bravi speleologi, del Piemonte, del Veneto, era di non recitare, di non scimmiottare i ragazzi del ’61 ma di essere se stessi.

Volevo creare un film strabico, far sì che la scena accadesse adesso e anche nel passato, far in modo che l’accadere desse immagini presenti e non di rappresentazione.

 

 

Il film è molto lucido, chirurgico, su quello che è un momento di rottura a livello storico. È l’epoca dell’abbandono del sud, dell’emigrazione interna e del boom economico, quello su cui Pasolini è chiarissimo: “in dieci anni viene rasa al suolo una cultura millenaria”. Questo c’è in tutti i tuoi film, che provano a guardare uno spazio che ha un altro tempo che scorre parallelo a quello storicizzato.

 

 

Perché mi costituisce quel momento lì. È qualcosa che ho compreso nel tempo, mi sono accorto che nei racconti infiniti di mio padre e mia madre della Calabria degli anni Quaranta e Cinquanta mancavano quelli dei primi anni Sessanta. Mancano perché c’è il dolore della partenza, il dolore della fine. Il film tocca un momento che segna la mia vita, i miei genitori sono due ragazzi che sono andati via nei primi anni Sessanta e si sono dovuti ricostruire un’identità mettere nuove radici. Io sono sempre rimasto oscillante in mezzo a queste due dimensioni.

Nel film ci sono tante luci che scavano: c’è il faro all’inizio, c’è la luce del medico e quella degli speleologi che scavano, scavano e creano nuove forme mentre c’è la televisione che crea nuovi bisogni, nuovi desideri. Io non avevo intenzione di raccontare questo, mi sono appoggiato a quell’epoca perché mi permetteva di lavorare sulla dimensione della frontiera con particolare forza, però è chiaro che quel momento storico ha a che fare con la mia venuta al mondo, con la mia vita.

 

 

Quando filmi la Calabria mi sembra che emerga forte l’amore per qualcosa che ti manca, che tu desideri e cerchi nelle immagini.

 

 

Ho un legame molto forte con la Calabria, fin da bambino molto piccolo arrivarci dopo un inverno a Milano mi dava un’emozione fortissima. Ci sono un o spazio e un tempo nel sud che sono cinematograficamente ricchissimi. Uno spazio dove la forma e l’informe convivono, il “non finito” tipico della Calabria, è, anche tragicamente un segno di questa dimensione del provvisorio. Questo per me è l’evento, qualcosa che non trova stabilità, che oscilla tra la forma e l’informe, come i lungomare che il mare spazza via e ogni volta si ricostruiscono, non si riesce mai a trovare una forma definitiva.

 

 

Quando Ingrid Bergman arrivò a Stromboli, trovò Rossellini e la troupe che si facevano il bagno in mare e Rossellini le disse di ambientarsi, che bisognava conoscere il posto prima di farci un film. Anche tu hai questo bisogno di abitare a lungo i luoghi che filmi.

 

 

Perché io non arrivo con un progetto che ho preparato prima e poi dopo uno spoglio della sceneggiatura si è passati a un location scouting, ma c’è un rapporto con dei luoghi e sono poi questi che in qualche modo ti rivelano connessioni tra presenze e figure, tra luoghi e luoghi. Questo è il racconto se vogliamo parlare di racconto, sono delle connessioni che si creano tra uno spazio e un altro che trovi lì. Per me questo film è la connessione tra la grotta e il vecchio, tra l’interno e la costa. Con questo vecchio che non si poteva dirigere, una dimensione non “ammaestrabile” che poi è quella della natura. I luoghi e le persone che incontri determinano il viaggio.

 

Nei tuoi film uomo, piante, animali hanno la stessa presenza, sono ugualmente importanti, nel Buco mi sembra ancora più evidente che la pietra, il vecchio, le mucche, sono tutte parti di un’unica dimensione, sono legate, stanno nello stesso insieme.

 

 

C’è un tentativo di non considerare certe gerarchie, intanto a partire dalla scelta di non utilizzare il dialogo, manca la parola come elemento di distinzione e di separazione dell’uomo dal mondo. Come dicevamo il nominare è mettere una distanza. A partire dall’utilizzo di un vociare e non della parola, non finirò mai di ringraziare i fonici che continuano a lavorare con me, Paolo Oliviero, Simone Benvenuti e a costruire un suono che abbia queste gerarchie. Anche in sala mix è difficile convincere i tecnici a mettere nella cassa centrale dei suoni lo scricchiolare di un albero o il belare di un capretto. Anche l’immagine diventa presenza quando tutto ciò che la compone diventa presenza, non solo la figura umana, ogni cosa è personaggio. In Alberi era proprio questo il punto centrale.

 

 

Anche lo spettatore in qualche modo mi sembra che possa diventare protagonista, mi sembra che il tuo cinema sia un’apertura che mi permette di entrare da un’altra parte e abitarla.

 

 

Spero che possa essere così, che venga un po’ meno la frontalità e la separazione. Il buio di Il buco vuole permettere proprio allo spettatore l’immersione nello stesso buio degli speleologi.

È come La finestra sul cortile, ti immedesimi in uno, James Stewart, che come te spettatore non può far altro che guardare, nel Buco ti immedesimi con uno che esplora il buio, proprio come te in quel momento.

 

 

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