"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

INTERZONE - L’acquario di quello che manca (enrico ghezzi)

Wednesday, 18 May 2022 22:59

Lorenzo Esposito

Il prossimo villaggio

 

 

Non sarò io a rivelare l’idea dietro e davanti all’inattualità magnifica di questo libro, la cui intensità è seconda solo al suo desiderio di impermanenza. A domanda precisa, come farà qualcuno che in futuro - diciamo uno studente - voglia addentrarsi e ricostruire un corpus di scritture dentro la tua scrittura, enrico qualche anno fa mi rispose: è facile dai. Non dico di più.

Intanto, c’è questo libro finale che, di conseguenza, è un punto di partenza. Così è la televisione, se dici “dammene troppa” è perché ogni sua scheggia - da Pippo Baudo a Dreyer a “Armstrong saltellante sulla luna” - è per l’ultima volta. Il primo passo è l’ultimo (come un viaggio di ventiquattro ore dall’altra parte del mondo per vedere una corsa di dieci secondi). Da qui (anche) la mitologica incomprensibilità attribuita a enrico ghezzi, che in verità è sempre stata - per accusatori e imitatori - paura di affidarsi al maelstrom. Non solo timore di tuffarsi in un tale vortice tra immagine e parola, ma - come precisamente diceva Poe - di affrontare l’abisso dello scrittore “che sa che si deve cominciare dalla fine”. Non a caso, chiunque abbia finora provato a scrivere o a dire qualcosa su L’acquario di quello che manca di enrico ghezzi si è dovuto quasi forzatamente arrestare alle premesse: è un libro poderoso, è mancato il tempo (eh già) per una lettura completa, se ne è fatta una preliminare trasversale, ci torneremo poi. D’altro canto l’editore, giustamente goloso, attenderà per sempre il romanzo (mai) scritto (e di cui non sarò io a rivelare la trama) perché, fin dal titolo, è stato scritto dalla fine (orosolubile: sciogliersi, dare la soluzione in cui sciogliersi, romanzo e foglietto illustrativo).

Ma è giusto che sia così. Non può che essere così nei confronti di un pensiero che, quando fa un passo, in realtà si sta muovendo da un firmamento all’altro, e che è capace di esprimere nel salto un diverso correre e un diverso star fermo, lui stesso stupefatto di come lo spazio-tempo dello scrivere possa bastare a una simile cavalcata. HAL 9000 infatti ritiene assurdo anche solo pensare di raggiungere il prossimo villaggio. E i computer, ancora oggi, non vanno di pari passo col clic sui tasti. Sono lenti.

enrico ghezzi libroMalinconia allora è giustamente la parola che ricorre di più. Se orale e scritto coincidono al punto da scriversi insieme (come nessuno al mondo, diciamolo), cosa resta al grande intagliatore enrico ghezzi quando spicca il volo se non sperare che il salto sia in avanti e a ritroso nello stesso tempo (ammesso che si dia un tempo), e che con leggera e mostruosa abilità si verifichi il fantastico ritorno al prima immagine da cui probabilmente il volo stesso era partito dimenticandosene. Come il sogno per Florenskij, ogni testo in questo libro è il racconto in forma di mappa visionaria del ritorno a quella che era stata subito, incontrollabile l’idea. Ad ogni risveglio inizio e fine coincidono.

Quando, con per nulla celata eccitazione, si ritorna all’accensione che fu (che era: l’imperfetto è sempre in qualche modo perfetto, infatti nobody is perfect), ci si trova malinconicamente nel mezzo del vortice. Il momento più bello è il riavvolgimento. Chi altri poteva scrivere (su e con paura e desiderio) su un film di Herzog che non esiste, oppure qui di un fantomatico riavvolgimento in diretta del nastro di L’uomo che amava le donne di Blake Edwards ben sapendo che di un film sul ritorno dell’immagine su se stessa si tratta (senza contare la situazione oggettiva di ritorno che è il remake)? Una semplice piccola fantasia sottomarina televisiva (spettatori in prima fila: Imamura e Masumura). Il racconto affascinato delle costellazioni tv, scintille ovunque, fuochi: e non c’è mai trasmissione (che non riguardi il vuoto). L’autore come nebulosa e la delizia di provare a diradare la nebbia (due bei modi di morire). Linee di collegamento, affinità nomadi come argini anticapitalisti. Le parentesi - le mitologiche parentesi - sono il modo (stupito da tanta autoironia) per non tergiversare sulle frasi ‘capitali’ che, ahimè, si susseguono. Il discorso, per difendersi dal naturale assorbimento del linguaggio nel potere, deve potersi mantenere segreto. È come per Fellini il fellinismo, un equivoco al pari della metamorfosi kafkiana.

Perché è così inattuale scrivere di televisione (che, peraltro, nel libro svapora via via, in qualche testo è quasi non citata, si parla e si fa parlare da altro)? La sua sublime bassezza coinvolge qualunque testo nella mutazione, si scrive ma il testo è mutato, non riguarda più il suo soggetto (e togliamole queste camicie di forza!, disse Carmelo Bene ad Alba Parietti). Così è tutto un racconto di come ci si prepara a sparire sparendo. Chlebnikov. Dick. Pynchon. Debord. La tv di per sé non esiste, esistono cose che, passando in tv, diventano televisione. Film compresi (alcuni, non tutti, ma sono i più sorprendenti). Si sa, gli idoli ci sono per essere abbattuti. A cominciare dalla comunicazione (a proposito, manca, non so perché, nella sezione ‘per sport’ un testo a quattro mani su una notte rigorosa fuori orario sui calci di rigore).

Non volevo dire di più, ma L’acquario di quello che manca di enrico ghezzi, fra i molti suoi pregi, ha quello di desiderarti nel vortice. In copertina ci sarebbe stata bene la tela del ragno da Il sepolcro indiano di Lang oppure l’inseguimento del gatto gigante in The Incredible Shrinking Man di Jack Arnold. Ha lo spessore microscopico di una rete insieme apertissima e viscosa, quanto più realizzata in caduta libera, tanto più resistente. E poi tenta la caduta libera vera e propria, il rimpicciolimento fino a sparire e, infine, passare attraverso la rete. La dissipazione che è lo scrivere, mantiene il peso di un progetto inconscio di dissoluzione fatto però di pura trasparenza. La vita e la morte giocano a rincorrersi nell’aria. Se essere “in punto di morte” è lo stato costante dello scrivere, lo è perché questo è “il punto, del resto, da cui parte e in cui finisce ciclicamente ogni narrazione”.

Nonostante lo sforzo d’amore e l’intelligenza attenta della curatrice Aura Ghezzi, sezioni tematiche e apparati sarebbe stato sufficiente (lo dico per gioco, al di là delle ovvie esigenze editoriali, anche se di ovvio non c’è e non dovrebbe esserci proprio nulla in questo libro) introdurli e reintrodurli in due capitoli semplici e intensi: l’assedio e il ritorno (titolo di un libretto geniale di Franco Ferrucci che enrico mi passò in fase pre-zaum). La tv condensa, suo malgrado, un orrore archetipico - o meglio, terribilmente malinconico come tutti gli archetipi della narrazione post-omerica, ma che in televisione diventa quasi una minaccia, un’orrenda minaccia: la fine e il ricominciamento della storia, che sia una cosa semplicemente fatta vedere o semplicemente riemersa dall’archivio o che si ripete atroce come l’ammasso di morti nei tg tutte le sere da settant’anni. “La guerra, evidentemente, è/sarà infinita” (fine di un dattiloscritto ritrovato che, insieme a trascrizioni di interventi e inediti e foglietti volanti, costituisce l’autentica miniera cui si attingerà a lungo).

Difficile comprendere cosa ci fa e cosa ci ha fatto sopravvivere a questo diluvio (Ulisse, appunto: quando cominci a raccontare, racconti subito e solo la tua storia). Forse l’intuizione che a un certo punto si dovrà essere sfumabili, non aver paura di sparire o “disinteressarsi” (un altro punto fermo in moto: Robert Walser). Altrimenti si rimarrà sedotti dal potere evidente e inequivocabile dell’ “incubo verosimile” del flusso. Invece è appassionante tenersi fuori ritmo, entrare (in tv) con Rossellini e uscire con un dolly.

 

 

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