"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

NAKED LUNCH (3) - Gli ultimi giorni dell’umanità (enrico ghezzi, Alessandro Gagliardo)

Saturday, 11 March 2023 00:26

Lorenzo Esposito

La vera misura della vita è il ricordo

 

 

Bertold Brecht resiste a lungo quando Walter Benjamin lo invita a discutere Il prossimo villaggio di Kafka. Come riporta Benjamin negli appunti presi a Svendborg nell’estate del 1934, la prima reazione di Brecht è: “Bisognerebbe studiarla bene” (la parabola). È il 5 agosto. L’appunto successivo data 31 agosto e riporta di una lunga discussione su Kafka che “si è concentrata per momenti sulla storia Il prossimo villaggio” (la storia). Brecht, che si richiama alla storia di Achille e la tartaruga, dice “uno non arriva mai al villaggio vicino”, ma “l’errore sta in quest’uno. Poiché proprio come è scomposto il percorso, così lo è anche chi lo percorre”. Benjamin risponde: “Io, da parte mia, do l’interpretazione seguente: la vera misura della vita è il ricordo”.

Conosco bene l’ossessione di enrico per Kafka. Lo so, perché è anche la mia ossessione (e di molti altri). Per anni ne abbiamo fatto il nostro gioco segreto (il nostro odradek, frusciante rocambolesco cruccio reciproco). Una conversazione ininterrotta nell’attesa mistica - credo tipica di chi non smette di leggere Kafka - di venire a sapere qualcosa. Sono lì a testimoniarlo alcune notti fuori orario (ma più spesso io che piombo in redazione con una lettera a Felice sul cinema riscoperta quella mattina presto che mentre leggo ad alta voce enrico ascolta sorridendo), una lettura-fiume di Giuseppina la cantante ovvero il popolo dei topi al Teatro Valle (occupato) per una serata che organizzammo insieme a Tommaso Ottonieri (enrico lettore invisibile in un palco-tana) e, soprattutto, la pubblicazione di un mio libro di racconti intitolato non per caso Il prossimo villaggio per cui enrico mi gratificò di prefazione e postfazione (e non solo1). Ma: come è scritto in quelle pagine a me rivolte da enrico stesso, nothing personal.

La lettura ‘impersonale’ che ne Gli ultimi giorni dell’umanità di ghezzi-Gagliardo viene data da Aura Ghezzi - quasi a scandire il film in tre monoliti che la scimmia può decidere se adorare o farne una relazione per l’Accademia - di Desiderio di diventare pellerossa (traduzione che enrico preferisce a desiderio di diventare un indiano, così come ha sempre preferito l’altra traduzione leggendaria di Henry Furst di il prossimo villaggio con il paese più vicino), de Il prossimo villaggio e della prima fantomatica inspiegabile riga dei Diari di Kafka (“Gli spettatori impietriscono quando passa il treno”: che è sempre lì fissa in calce a questa rivista), “è talmente nell’impersonale da essere troppo personali2” (come il cinema). C’è, nel volto e nel dire di Aura e nell’inquadratura (di Gagliardo immagino), la posizione di chi, nel rincorrere senza poterci arrivare, il lampo di Kafka, sembra restare nel desiderio di una domanda da porre (cosa che l’Accademia non insegna e non sa insegnare, come ricorda in un momento sublime centrale e “pericolosamente finale” del film Danièle Huillet).

Scrive enrico3: “Il desiderio di diventare pellerossa, di nuovo nella traduzione furstiana, non è corollario né determinazione volontaristica del paese più vicino. Con walterbenjamin (che non poteva non leggerli insieme) ben immaginiamo sogniamo temiamo che il cavaliere la cui epifania si introduce e annuncia entusiasmante, non arriverà mai neanche a sfiorare l’ombra più vicina, la sua, perché mentre appare già comincia a disfarsi in atomi di immagine, parte del proprio naufragio e insieme spettatore di esso. L’uno degli istanti spaziali estingue nella propria caduta impensabile anche l’altro, nel suo mancare non c’è posto per l’essere ma solo per il riessere che si dipinge con l’andare e venire intermittente del cartoon”. E più avanti: “Questo è infine il paese più vicino o il prossimo villaggio: la maschera irridente o dolente del presente, accampato sempre a pochi chilometri metri fotogrammi istanti fiati da se stesso. Gli stessi cavalli e le persone che intravediamo nel bosco o nella prateria o nello specchio, o assedianti/assediati sotto antiche mura, pronti a sparire e riapparire nei modi più vari, non sono più inquietanti della vita quotidiana filmata anche una sola volta o ancora o mai. Lo spazio vince senza bisogno di vincere, fingendo guerre e contese, facendo respirare con lo stesso ‘tempo’ (macchina che intenerisce uccide sfinisce) con cui ci soffoca”.

Mi piace pensare, o credo di capire, che il respiro interno ed esterno, personale e impersonale irridente e dolente, de Gli ultimi giorni dell’umanità, guardi e proprio danzi in filigrana a queste righe (almeno per me) struggenti. Non solo tuffarsi nella vertigine kafkiana (a cui partecipa precisissimo l’altro testo letto, Una discesa nel maelstrom di Poe), ma - con intuizione e ossessione questa volta tutte di enrico - scoprire prima e dopo di noi testi che “risentono del cinema e lo dicono tutto senza nominarlo4”. O meglio, provare a restare a galla - col corpo, nell’immagine - nel naufragio che è il presente. Cosa che appunto prova a fare Karl Kraus (che però non capiva Benjamin, mentre Benjamin capì fin troppo Kraus che reagì male a tanto perspicace denudamento) nel massacro della guerra perpetua col suo capolavoro Gli ultimi giorni dell’umanità. Al di là di ogni retorica: cosa fa il cinema di fronte “all’impossibilità della pace”5 (che ci siano una dieci o nessuna guerra)? Il punto è che non fa. È questa la sua forza, se vogliamo anche la scaltrezza. Lo squarcio che in più punti procura sul manto affannoso, sul chiacchiericcio a un passo dal collasso che è diventata la realtà, è tanto più ampio dal momento che non si vede6. Nel film è detto chiaramente: fantasma del desiderio, desiderio in quanto fantasma, insoddisfazione, memoria della catastrofe già avvenuta. Qualcosa di superfluo, dunque necessario (io direi kafkianamente vano: lo scrivere). Se non si vede o nessuno dice nulla (vedi Ray Milland7, via Corman e Russell Rouse), l’accecamento coincide con lo stravedere, dove l’essere visionario è anche monumento ironico a ciò che resta del gioco e del giocare (questo per esempio è sempre stato il lato meno compreso di Kafka o… di fuori orario). Raggi X non per vedere di più, ma per restare puntati, fissi nel buio.

Ma c’è qualcosa in più stavolta. Qualcosa che, di tutto questo, mi sembra schiacciante conseguenza preparata e vista negli anni con una sorta di veggenza la cui saggezza è da mettere forse sullo stesso piano della follia. Posso capirlo solo ora, che, troppo presto troppo tardi, sono diventato padre. La cosa in più è l’archivio famigliare che enrico, con piglio mekasiano, ha filmato imperterrito negli anni (di cui pagine sparse erano cominciate ad apparire nel lavoro televisivo “Zaum”8). Siamo dalle parti di As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty per come la tempesta elettrica di nome famiglia o vita privata si attenga non al narcisismo o allo svelamento di chissà quali segreti ma all’idea di una persistenza, dell’intensità con cui i momenti più amorosi di una vita si danno - già mentre accadono - in quanto fantasmi, già spariti e insieme però fantomaticamente disseminati (il luogo estremo del fantasma ovviamente sono le immagini riprese). In questo ci vedo anche, più di Mekas, la vera anima rosselliniana di enrico. Siamo dalle parti dello Psychodrame, cioè non solo un potente lascito alle persone amate (troppo facile, allora perché non semplicemente fotografare..), ma una richiesta trasparente d’amore e presa di posizione: vi affido i vostri sguardi che, per essere visti, richiedono che voi vi affidiate a me, che scivoliate anche solo per un istante nella mia posizione. Come per Rossellini, ci sarà un incrocio di sguardi che resiste (‘più bello, più diffuso, più immarcabile di uno sguardo che si oppone’) nonostante le tremende forze in gioco che mirano a disintegrare. Un campo di concentramento tedesco in fuga dalla Lituania, New York, l’India, Houston, il risveglio su una nave, una casa in campagna o al mare, la stanza di un ufficio, una bambina accompagnata a scuola sotto la pioggia: non importa dove accadrà, dove ripasserà il fantasma.

Catastrofe e apocalisse da una parte, accecamento e invito al vuoto dall’altra non sono categorie di nulla (anche perché non c’è nulla da comunicare), sono saette e sono attese, sono tutte passeggiate in assenza di gravità9. Il film è attraversato da lunghe gittate anti-gravitazionali, non per forza segni di durata limite e non per forza combinazioni subliminali, piuttosto conquista dello spazio come possibilità di magnifico disorientamento (apporto vero malastradiano: rovesciare un presente che non c’è nella sua ulteriore illusione di galleggiamento politico). Qui - se è questo un luogo - è l’altrove che Straub-Huillet avvertono deve finalmente liberarsi dalla sovrapposizione dell’io alla visione, cioè il modo in cui si finisce per non vedere mai nemmeno un film o leggere un libro. Estremizziamo: neppure il proprio sguardo va bene per un film. È quello che tutti facciamo e non riusciamo a evitare. Fa bene enrico a chiosare: chi può dire di aver visto un film. Nero. Una nave fluttua nella distesa nebbiosa. Una voce vicina lontana. L’angelo della storia.

La vera misura della vita è il ricordo, dice Benjamin, non senza essersi a lungo interrogato (in molte lettere a Scholem e nell’insuperato scritto su Kafka) sullo scacco implicito a una consapevolezza del genere. La vita - straordinaria e straordinariamente corta - si siede accanto a noi un po’ dolce e un po’ furente, un controcanto a chi l’ha appena tirata in ballo, forse amandola e forse, ma non è ancora chiaro come, giudicandola. È stata scoccata una freccia infuocata e questa freccia, difficile anche solo a immaginarsi, mentre vola in avanti corre all’indietro senza mai fermarsi producendo una mareggiata persino più incontrollabile, una tempesta che scuote il punto d’origine e fa ricominciare la storia (così argomenterebbe Benjamin). Ma non è angoscia, sarebbe più giusto sorridere, ridere: è la confusione di ogni giorno (così racconta altrove, più saggiamente, Kafka).

In un lontano diario di viaggio, Kafka racconta quasi di sfuggita un’esperienza al Kaiser Panorama che rivaleggia con quella, più famosa, di Benjamin. Come se avesse la sensibilità di qualcosa che è al tempo stesso l’inizio e la fine di un’umanità intera, il crollo mostruoso, apocalittico di un secolo sull’altro, scrive una frase impareggiabile: “Il cinematografo imprime a ciò che si guarda il suo moto irrequieto, mentre la calma dello sguardo mi sembra più importante”. Per calma dello sguardo Kafka intende la calma della realtà - qualcosa di così semplice, da risultare irraggiungibile - per cui le immagini circolari e acquitrinose del Kaiser Panorama sono più vive del cinematografo. Tuttavia, nonostante la gravità dell’intuizione, l’immagine più potente viene scritta quasi in sordina, ed è di un’ironia tenace mirabile e disperata: quando Kafka entra nel Kaiser Panorama si accorge di avere le scarpe tutte sporche, ricoperte di neve, e allora resta tutto il tempo in una posizione goffa, seduto toccando il tappeto con le punte dei piedi. Sembra la figura di uno dei suoi schizzi oblunghi e dinoccolati e denuncia l’incertezza di chi, per vivere, sa che bisognerebbe non prendersi mai troppo sul serio.

Qualcuno dirà che sto perdendo di vista il soggetto. E come potrebbe essere il contrario. Mi sembra, caro enrico, che io debba rimanere ancora un poco qui, al limitare de Gli ultimi giorni dell’umanità. La vita non è solo corta, lo è “straordinariamente”. A proposito di grandi muraglie, ecco una parola di un certo ambiguo peso. Dopo ‘vita’, fa l’effetto di una colata di cemento, eppure mantiene l’aspetto comico. Straordinariamente: in maniera unica e incredibile; oppure: in maniera irregolare, diversa dal normale. È così che lo strillone annuncia la guerra. Edizione straordinaria. Straordinariamente: unità di misura quasi incalcolabile, invisibile a occhio nudo e finanche al microscopio, la vita è corta ma in un modo che non si può dire. Quanto è corta? E perchè siamo soliti dire ha avuto una lunga vita di chi, veloce veloce, se ne va dopo appena ottanta o novant’anni? Cortissima, più che cortissima. Fulminea. Siderale. Possiamo solo riderne. Le edizioni straordinarie, d’altra parte, sono famose per denunciare l’illusione di poter stare al passo degli eventi e, se pure ci si lanci in una cavalcata sfrenata, l’unica cosa che fanno è assottigliarsi nel vento e sparire altrettanto velocemente e più ancora vanamente. Sono forse la cosa più vicina al nulla. Un intero genere umano, come ha raccontato Karl Kraus, è collassato accumulando edizioni straordinarie. Straordinaria è dunque la precisione del nulla.

Eppure è questo che siamo, è questo che facciamo, cerchiamo il prossimo villaggio. Prossimo si intende vicino o, appunto, più vicino. Si intende forse anche il successivo, quello dopo, ma non uno in più, potrebbe anzi essere uno in meno o uno geograficamente limitare, di poco spostato. L’allungo orientale degli occhi del nonno guarda insieme con sospetto e ammirazione alla tragica verità: inizio e fine preludono l’uno all’altra in una situazione spaziale dai confini non chiari. Kafka continua: “La vita è straordinariamente corta. Ora, nel ricordo…” È sempre il nonno cinese che parla. Benjamin, l’unico ad aver subito indovinato la nazionalità del nonno, citava nel suo saggio su Kafka Lao Tse: “I paesi vicini possono trovarsi a portata di sguardo, fino a udire il grido dei galli e dei cani in lontananza. Eppure gli uomini dovrebbero morire vecchissimi senza aver mai viaggiato lontano”. Benjamin affermava che Il prossimo villaggio ne fosse la perfetta trascrizione.

Il nonno è un Platone cinese. Descrive l’uscita dalla caverna e dice che, al pensiero di incamminarsi, è incerto su quali immagini siano più impossibili, quelle che assalgono, accecandolo, l’avventuriero che si sporge verso la strada, oppure quelle che restano con l’altro avventuriero, cieco pure lui, che decide di restare con le ombre che guizzano nella caverna. Chi dei due va più lontano? Le immagini, se sono impossibili o, come si dice con kafkiana ironia, (mai) viste, in quanto tali sono più vicine. Ma dire: “Ora, nel ricordo”, nonostante il sorrisetto cinese del nonno, fa paura. I tempi si accavallano e tolgono il fiato. Presente e passato in un solo futuro. Ora: dove? chi? Nel ricordo: dove? quando? Si spalanca un altro abisso: “Ora, nel ricordo, mi si contrae a tal punto che”. La nota breve della parola ‘ora’ unita all’ambiguità della parola ‘ricordo’ contiene la carezza del tempo illimitato e la foratura continua dell’infinitezza: i buchi neri, i capitomboli della memoria. E insieme producono la deflagrazione muta del “mi si contrae a tal punto che”. Ecco la soglia del tribunale. Varcandola, la sentenza apparirà con immensa desolazione e una grandissima risata. Ma la sentenza non è la risposta, Kafka se ne dispera perché - come dice Benjamin - conosce il fallimento. Cosa fare se ti è stato dato il dono di farci ridere ma, per quanto tu ti possa impegnare, per quanto il sorriso sia lampante in ogni parola, in ogni frase, questa chiarezza è straziante, agghiacciante? Finisci per ammalarti, fai quel che puoi finchè puoi. Ma Kafka è così allungato nella contrazione assoluta, che gli resta incomprensibile come si possa anche solo pensare di cavalcare delle pagine bianche con le parole, a meno che non si diventi in tutto e per tutto il cavallo, zoccoli vento e criniera, il segreto dell’indiano.

 

 

1 Non è questa la sede (e parte del gioco è svelare a metà questo piccolo segreto in nota: qualcuno verrà), ma fra quei miei racconti è nascosto un testo di enrico, una piccola grande prova di assimilazione kafkiana che, una volta trasferito altrove, potrà considerarsi a tutti gli effetti un suo testo inedito. A chi è interessato, sono qui. Ma per ora, caro egh, ce lo teniamo per noi due soli.

 

2 Le citazioni sono tutte da quella prefazione e da quella postfazione: come vedi, caro enrico, sono molto A MIO (PL)AGIO.

 

3 Lo scrive fra parentesi. Va inoltre ricordato che Il desiderio di diventare pellerossa in quel libro era anche epigrafe alla sua prefazione e qui nel film è il primo degli interventi kafkiani. In un altro intervento di poco successivo (il libro è del 2011, questo testo del 2012) sulla rivista “Blow up” enrico definiva uno scritto pazzesco di Daniel Charms, Mundo, “il suo desiderio di diventare pellerossa”.

 

4 Blow Up n. 175, dicembre 2012: enrico li cita uno a uno: “dai lampeggiamenti definitivi di Kafka, al finale de L’Occhio di Nabokov, da dieci righe di Bataille nell’Esperienza interiore, a Benjamin, a Rilke, a Chlebnikov e all’inaugurale e malaugurante - per chi scrisse e visse nell’Ultimo Secolo mai trascorso - Ein Brief (L’ultima lettera di Lord Chandos) di Hofmannstlahl”. Dove si protende, o meglio da dove si protende il cinema? Nel numero precedente della stessa rivista enrico faceva qualche nome in più: Lacan, Democrito, i Vangeli apocrifi, Descartes, Kafka (sempre), Lumière, Benjamin (sempre), Warburg, Duchamp, Debord, Warhol (non penso sia casuale che questi siano i due ultimi testi scritti per la rivista in questione e che la loro pubblicazione coincida con la fine della rubrica intitolata “Aluncina”). Altrove mi ha confidato e fatto leggere Chesterton (ovviamente), Robert Walser e l’incredibile Il signore di Ballantrae di Stevenson.

 

5 Calasso, nell’introduzione a Kraus.

 

6 “Il cinema (che) non si vede” è il titolo di una serie che enrico scrisse su “Filmcritica” e di cui da ragazzino ero il recuperante. Avevo convinto il direttore Edoardo Bruno che sarei stato in grado di non far mancare il pezzo. In realtà - oggi lo posso dire - non mi preoccupavo tanto che il testo arrivasse in tempo ma che io, grazie a questo compito auto-assegnatomi, potessi vedere incontrare parlare con enrico.

 

7 Nel già citato numero di “Blow Up” con il testo di Charms, enrico fa pubblicare intorno ai due scritti capovolti l’uno rispetto all’altro tutta una serie di immagini di Ray Milland.

 

8 Già per la puntata sull’anima a cui mi ero ritrovato a lavorare da solo enrico mi aveva consegnato il cosiddetto ‘Aurageddon’ di cui avevamo montato una versione più lunga, anche se divisa in due parti, di quella scelta qui. La sequenza in Zaum comincia già in moto con enrico che riprende il soggiorno di casa con la famiglia che guarda la tv e lui si allontana in cerca di Aura che è da sola in cucina a guardare Armageddon.

 

9 Caro enrico, ti piacerà sapere che il computer ha scritto essenza di gravità.

 

 

 

 

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