"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

FUTURE OF CINEMA IF YOU WANT TO KNOW - Conversazione con José Luis Guerín

Monday, 22 February 2016 10:30

Davide Oberto

 

L’ACCADEMIA DELLE MUSE

conversazione dopo la proiezione del film al Torino Film Festival nella sezione TFFdoc/mediterraneo tra il regista José Luis Guerin (JLG), il professor Raffaele Pinto (RP), protagonista del film, Davide Oberto (DO) e il pubblico (P) presente in sala

 

 

DO: Il tuo è un film complesso, in cui hai giocato anche a inserire “tranelli” formali. Inizia con la ripresa di una lezione, inizia come un documentario di osservazione e ci porta altrove, molto lontano. E allora partiamo proprio da qui, dalla forma che hai dato al film.

 

JLG: Questo lavoro è iniziato come un esperimento, senza la convinzione di voler fare veramente un film. Ero stato invitato dal professor Raffaele, era lui piuttosto che aveva il desiderio di fare cinema e infatti è un attore molto buono. Io ho accettato e ho cominciato a sperimentare un po’, con una piccola camera, senza troupe, solo con un’amica che si occupava del suono.

È iniziata come un’esperienza personale, che volevo fare per me, come un’investigazione sulla parola, sulla mise en scène della parola.

Poco a poco ho cominciato a vedere che c’era una struttura, una composizione, che le varie scene entravano in relazione e davano corpo a un film.

È molto importante sottolineare ancora che io mai ho sentito l’obbligo di fare un film: non c’era il sostegno di istituzioni, non c’erano sovvenzioni né la presenza di un produttore. È stato un lavoro totalmente libero, come forse quello dello scrittore, che può abbandonare un capitolo del romanzo, iniziarne un altro e tornare indietro successivamente.

La normale produzione cinematografica “industriale” prevede la scrittura della sceneggiatura, la chiusura della sceneggiatura e le riprese del film tenendo conto del piano previsto dalla sceneggiatura. L’industria funziona per compartimenti stagni: sceneggiatura, ripresa, montaggio.

Nel mio caso, invece, è come se il cinema si nutrisse di se stesso, perchè filmo un po’, scrivo, monto, poi torno a filmare, e di nuovo a scrivere, a montare... Questo procedimento permette la creazione di una narrazione che sarebbe impossibile partendo da una sceneggiatura scritta in precedenza.

 

DO: A proposito di sceneggiatura, ci tenevo a capire come hai lavorato con Raffaele Pinto e Rosa Delor, e con le studenti di Raffaele. Avete scritto insieme? Avete improvvisato? Quanto c’è di studiato, di riscritto, di rifatto e quanto invece di completa apertura al caso?

 

JLG: Io ho cercato di intervenire in modo molto sottile, organizzando situazioni. Al posto della nozione classica di mise en scène ho proposto la mise en situation, basandomi sull’improvvisazione, e tenendo sempre presente che si trattava di un gioco di finzione.

In effetti Torino è l’unico festival in cui ho accettato che il film fosse programmato in una sezione documentaria, perchè per me è importante mantenere l’ambiguità che sta nel film in quanto pura finzione. Se il film fosse solo un documentario, sarebbe quasi abietto. moralmente.

 

Conversazione con José Luis Guerin

 

DO: Però se tu non avessi fatto anche documentari, non saresti riuscito mai a fare questo film.

 

JLG: Questo è vero. La mia filmografia è un’ibridazione permanente tra cinema di finzione cinema documentario. Un critico spagnolo mi ha fatto scoprire che i miei film dispari sono di finzione e quelli pari sono documentari.

Per me la distinzione è molto importante: in un film di finzione, se dici che un personaggio è un criminale, non succede niente; se invece lo affermi in un documentario, potrebbero esserci implicazioni, anche giudiziarie.

Però questa alternanza fa sì che nei film di finzione mi piaccia usare tecniche e strategie che ho imparato facendo documentari e viceversa.

 

DO: Credo sia anche una questione che ha a che fare con la libertà della camera di cogliere cosa le si rivela davanti. Le parti girate in Sardegna, per esempio, hanno una struttura etnografica che sembra scappi dalla struttura finzionale. La bellezza del documentario è anche la possibilità di lasciarsi trasportare dall’inatteso che accade davanti alla camera.

 

JLG: Sì, si è trattato di aprire un po’ la porta per lasciare entrare una certa poetica etnografica, aprire la porta a una certa verità etnografica, ma anche a una nuova drammaturgia per gli attori. Credo che il modo in cui Raffaele e Rosa recitano, arrivi a una verità maggiore.

 

DO: Raffaele, potresti dirci com’è stato recitare in questo film. Hai recitato? O, a che punto hai iniziato a recitare?

 

RP: Innanzitutto vorrei dichiarare che la trama del film è finzione. Non è vero che io abbia tutti questi rapporti amorosi. È una trama inventata dal regista, è tutto finto!

Detto ciò, dal mio punto di vista il rapporto tra documentario e finzione è molto più sfumato di quanto lo sia per un regista o un critico cinematografico. Io sono un critico letterario, per cui per me la domanda fondamentale nei confronti della poesia non è stabilire dove stanno il vero e il falso.

Il mio punto di vista è quello di chi è dall’altra parte della cinepresa e la cinepresa agisce nelle situazioni, nella realtà trasformando lo spazio in un set. L’effetto che ha il dispositivo cinematografico è quello di portare a termine questa trasformazione.

Prendiamo uno spazio qualunque – un’aula universitaria, un’automobile, una cucina - se ci mettiamo dentro una cinepresa diventa un set.

Cosa significa? Significa che vengono liberate energie affabulatrici che normalmente sono inibite o represse. La presenza di José Luis e del dispositivo nell’aula permettono a me, a mia moglie (Rosa Delor n.d.r.) e ai miei studenti di fabulare, di attraversare quella soglia tra il reale e il quotidiano e il mondo della fantasia, che da un certo punto di vista è quello vero. Per questo a me non importa la distinzione vero/falso. La fantasia, normalmente, è più vera del reale, per cui si tratta di poter accedere a una dimensione più autentica, che, insisto, non è quella della trama, ma quella delle emozioni, dei sentimenti, anche dei pensieri.

Ricollegandomi a quello che detto José Luis, mi sembra che sia stata l’esperienza straordinaria di una diversa drammaturgia. Il cinema può avere questa funzione: scoprire l’attore che è in ciascuno di noi, scoprire che è possibile trasportare ogni spazio in una dimensione di verità che normalmente non ha. Rispetto ai protocolli del reale, fittizi, nel senso di ipocriti, il cinema può avere questa potenzialità e José Luis è riuscito a trasformarci in attori e farci dire cose autentiche, belle.

 

P (Leonardo Di Costanzo): La finzione nel film inizia in un modo tale che permette agli sviluppi successivi e alla narrazione di essere estremamente coerenti. I personaggi che tu hai introdotto all’inizio, filmando semplicemente le lezioni universitarie, nella parte documentaria, possono avere coerentemente un tipo di sviluppo come quello che avviene poi nel film. Tu sei passato dal documentario senza che io me ne accorgessi. Questo rapporto tra finzione e documentario spesso è troppo semplice, mentre nel tuo film è molto raffinato.

 

JLG: Probabilmente questo è stato possibile perchè la finzione inizia prima, prima che lo spettatore se ne accorga. Probabilmente neanche i miei attori hanno coscienza di quando inizia la finzione perchè il dispositivo creato cinematograficamente cerca di creare emozioni reali partendo da situazioni fittizie. Quando in classe il professore tira fuori l’idea dell’Accademia delle Muse, potrebbe sembrare che quel momento stia dentro a una situazione documentaria, ma non è così. Il professore non avrebbe mai formulato una proposta tanto folle se non ci fossi stato io presente con la camera. La dinamica è stata quella di creare una nuova realtà per la macchina da presa. Quando si fa documentario si dice che la camera debba essere discreta per non snaturare le persone, ma se gli attori, anche se non professionisti, sono buoni, come in questo caso, la presenza della cinepresa è positiva, genera azioni e attori.

 

P: In alcune scene, i dialoghi a due sono spesso visti attraverso dei vetri, come il finestrino della macchina o la finestra di casa. Qual è il significato di questa scelta?

 

JLG: La prima ragione ha a che fare con il pudore. Mi sono chiesto come potevo fare a passare da uno spazio pubblico, documentario, come quello dell’aula, a uno spazio intimo come quello dell’auto, della casa e mi è sembrato più logico restare all’esterno, anche per non invadere lo spazio dei miei attori, che sono bravi, ma non sono professionisti. E allora restare all’esterno mi è parso più naturale.

Quando ho rivisto i materiali al montaggio ho pensato che visivamente questa scelta era interessante perchè è un film chiuso sui volti, dove raramente si vede lo spazio, anche perchè non avevo i mezzi per filmare lo spazio come si deve. È un film fatto con pochi fondi, in economia, un film figlio della crisi della Spagna, del momento in cui viviamo e quindi l’unica inquadratura che potevo controllare era quella dei volti.

Mi è sembrato che l’idea dei riflessi dei vetri fosse interessante per definire lo spazio. In questo film molto sintetico, senza immagini di raccordo, senza immagini che riprendano direttamente lo spazio, solo i riflessi riescono a definire una certa idea dello spazio della città. E mi è piaciuta anche molto la mancanza di materialità che acquisiscono i corpi attraverso i riflessi.

 

DO: A me pare che i vetri, pittoricamente molto belli, creino un filtro, quello spazio tra vero e non vero che permette all’ambiguità che regge il film di svilupparsi.

 

JLG: È come un trompe-l’oeil. Il film è tutto un trompe-l’oeil. Nel film non si parla d’altro che di letteratura, di sonetti, di internet, di come organizzare una biblioteca, ma sotto tutti questi dialoghi letterari sentiamo che c’è altro; sentiamo storie di seduzioni, di gelosie, relazioni di potere.

 

P: C’è stato un soggetto all’inizio del film?

 

JLG: No, non c’era nessun soggetto. L’importante era subordinarsi a un dispositivo cinematografico. Io sono stato il primo spettatore, e io ho attivato le scene che mi hanno portato molto distante da dove ero partito, in luoghi imprevisti.

Vorrei recuperare le parole di Rossellini sul cinema della rivelazione, perché per me il cinema è una rivelazione. Faccio un film per accedere a una rivelazione. Se conosco già il film, perché scritto in una sceneggiatura, perdo ogni desiderio di girarlo. Non faccio film per imporre tesi al pubblico, ma per accedere io stesso a conoscenze che voglio condividere con il pubblico.

 

RP: Vorrei aggiungere qualcosa sulla questione del soggetto e della trama utilizzando strumenti che vengono dalla letteratura perchè mi sono più familiari.

La letteratura oggi è diventata un fenomeno interattivo, nel senso che il testo letterario si costruisce oggi nel dialogo tra l’autore e i suoi lettori. Le reti sociali sono lo spazio dove la letteratura acquisisce questo nuovo statuto di dialogo, di conversazione da cui scaturisce il testo.

Questo film riflette un po’ questo nuovo statuto estetico per il quale il prodotto estetico non nasce come progetto nella mente di qualcuno, ma nasce nel dialogo e di una interazione tra colui che manovra la cinepresa e il set, cioè quelli che stanno davanti la cinepresa. Succede, quindi, che gli uni trasformino gli altri e il film diventi il prodotto di questo dialogo, di questa conversazione.

 

 

 

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