"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

FESTIVAL/IFFR 2016 - Artist of Fasting (Masao Adachi)

Monday, 22 February 2016 11:00

Erik Negro

 

La fame, la lotta, la vita: una questione privata.

Definire Masao Adachi un regista sarebbe come spolpare la sua anima della spinta vitale con cui ha attraversato più di mezzo secolo di storia giapponese e con cui ha lottato continuamente senza mai potersi dare vinto. Potersi dare si, perchè anche in questo ultimo straordinario Artist of Fasting (di)mostra che non ci si può dare per vinti, anche quando si è troppo stanchi e provati, perchè solo il sacrificio stesso può mitigare la sconfitta e fornire linfa nuova per una lotta nuova; in fondo solo la dialettica del futuro può imporre oggi una resistenza reale e possibile all’evoluzione autodistruttiva dell’uomo. La sua è la sempre più distante figura di esiliato rivoluzionario la cui incrollabile fede politica (ed) umana hanno plasmato una personalissima visione del cinema come dialogo critico con il proprio tempo. Un teorico ed un pensatore che proprio nella forma della militanza trova il senso stesso della sopravvivenza. Adachi, come il suo digiunatore, è ancora in grado di smuovere la consapevolezza sulla rete invisibile di egemonia politica, definendo continuamente vortici di immagini con freddezza oggettiva di passaggi umani e paesaggi urbani che trovano nella lotta l’unica prospettiva. Era stato in trincea, con in una mano la macchina da presa e nell’altra il coltello (come ama definirsi lui stesso) dissacrando la società in cui era costretto a vivere in un continuo enigma di sensi tra la sessualità, la lotta e la promessa sempre presente, ma mai urgente della rivoluzione, aveva descritto con Koji Wakamatsu uno dei più straordinari e controversi manifesti cinematografico-politici mai redatti, aveva abbandonato il cinema per raggiungere davvero la Red Army fino a lavorare per la STASI. Ecco, eravamo oramai abituati a definirlo con una serie di improbaili, per un rivoluzionario come lui, verbi al passato fino ad otto anni fa quando con lo splendido Prisoner/Terrorist condensò una meditazione astratta e parzialmente autobiografica sull’imprigionamento, la sconfitta, l’esilio, la resistenza e le conseguenze del sacrificio per una causa superiore. Oggi probabilmente il mondo si trova in una vertigine ancora più scoscesa, in un baratro etico per cui lo stesso Adachi sembra chiamato ancora in causa a reagire, a vomitare un altro spaventoso grido di dolore, a riprendere la battaglia.

Parte da Kafka, dal suo enigmantico ed affascinante Il digiunatore e ne cammina sulle sue sponde, rapendone la metafora e la narrazione, riempendolo di una crudeltà diretta, di un realismo che lo scrittore boemo non ricercava e che invece per Adachi è l’essenza, la carne, la materia stessa con cui re-interrogarsi ancora una volta sull’oggi, su tutto quello che abbiamo paura di guardare. Probabilmente l’atto stesso del parlare di questo film, si discosta non tanto dalla volontà dell’autore, ma quantomeno da quella del suo protagoista, che nella reiterazione continua della mancanza di bisogno, come dalla distanza che scava con il tessuto connettivo della propria società, trova un personalissimo senso alla vita. Un senso anche dall’estetica devastante ma che non potrà restare personale, proprio perchè già di dominio pubblico, alla mercé della piazza, del popolo, degli smartphone, delle televisioni, del potere e soprattutto dell’immagine. Lui lo è diventato immagine, al contrario, compiendo il gesto più eclatante di tutti, cioè non compiendone nessuno. Negarsi alla società pare creare un cortocircuito interno alla stessa, che però non può colpire il digiunatore, lui è consapevole, sa già cosa vuole e da che parte stare. È qui che Adachi mette in discussione il fondamento stesso di azione artistica. Può l’avanguardia ancora strutturare e distruggere un’azione cinematografica (ed umana) nel clima culturale di oggi, dominato dal neoliberismo intellettuale e dal caos assoluto del post-contemporaneo? Se la risposta è affermativa, deve trovare la sua radice in questa negazione, in questa fragilità umana che diventa la forza disumana del non scendere a patti con nessuno degli strumenti di oggi, a partire dal cibo - con una naturalezza che non dovrebbe aver nulla a che fare in considerazione al sofismo stesso della domanda .

 

Il mondo intorno a lui invece pare esplodere, ci sono una nuova notte e nuova nebbia sul Giappone che si riflette sul mondo intero, quasi come (s)travolto da quel gesto, ogni persona di quel microcosmo deve per forza partecipare e ancora di più sentirsi partecipe pensando invano che l’emulazione sia una via di salvezza, forse in maniera ancora più codarda di chi in quel gesto ci vedeva unicamente un’opportunità di speculazione. Nella mente del digiunatore tutto pare confondersi, l’onirismo fluttua in un vortice di simboli, dalla notte dei tempi nipponica, fino alla Parigi di Charlie Hebdo, ma tutto è trasfigurato, coerente e funzionale nella ridiscussione continua di una presa di posizione in questa trincea sempre più magmatica, virtuale e pericolosa. Allo stesso tempo però per qualcuno di quella moltitudine appostata per vedere sfiorire i petali della sua vita, il digiunatore è veramente un esempio o forse quella fiammella della speranza che ognuno di noi cerca in uno sguardo altrui. Un ragazzo ed una ragazza li si incontrano, li si amano e li si perdono per sempre. Lui viene ucciso dalla guardia appostata a vegliare (?) il digiunatore e l’attaccamento di lei alla fisicità dell’inerme e fragile corpo di lui è il brivido che corre lungo la schiena di una passione perduta, quello che da Oshima allo stesso Wakamatsu vedeva nell’appagamento dei sensi e nel desiderio incondizionato l’arma piú forte, quella contro cui il potere non può davvero fare nulla. Sarà lei a modellare con le mani quella statuina (immagine dell’immagine, simulacro del desiderio) che poserà lì, dove sostava la gabbia, dove il digiunatore non c’è più e dove la vita pare tornata normale. Tutte le storie in fondo, sono sempre una storia sola e forse proprio in lei c’è la stessa risposta alla domanda in chiusura del paragrafo precedente.

 

Artist of Fasting (Masao Adachi)

 

Kafka esordisce dicendo che ora il mondo non ha più tempo per interrogarsi sui digiunatori, ed allo stesso modo Adachi chiude il film, come se lo spettacolo fosse davvero finito, come la malinconia del momento in cui il circo lascia la città. Entrambi i digiunatori consciamente ammettono che la loro arte è la più facile e naturale del mondo, anche perché non c’è al mondo un cibo che li soddisfi. Ma il digiunatore di Adachi non è quello malinconico di Kafka, è un antieroe turbato, indifferente al pubblico e alla visibilità, ostinato forse in un drammatico detour della redenzione. In una delle ennesime notti in cui lui non riusciva a prendere sonno gli/ci appaiono una carrellata di immagini di guerra, incastonate verso un’astrazione cosí eterea quanto insopportabile, mentre è lui stesso a dirci che l’uomo è un ingordo, che è stanco e stufo di questo cannibalismo sociale, e sarebbe coerente e naturale digiunare perchè da troppo tempo è l’uomo che continua a mangiare se stesso. La nausea della coscienza. Ed il cinema è li, per un attimo anche lui muto ed inerme, quasi straziato da ciò che un autore del genere ancora una volta è riuscito a fargli esprimere. Perchè la società dello spettacolo ha paura del silenzio come della pagina bianca, teme coloro che la sfidano negandosi, e Masao Adachi in questo è e resterà sempre un partigiano, nemmeno per un attimo indifferente, eternamente occupato a richiamarci al dovere, perchè la lotta è ancora lunga, e l’immagine stessa può ancora essere dalla nostra parte.

 

 

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