"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

FESTIVAL/Cannes 2017 - The Day After (Hong Sang-soo)

Wednesday, 19 July 2017 09:42

Lorenzo Esposito

Lei riappare, irriconoscibile

 

Is it the future or is it the past? Alla domanda che cos’è il cinema non si può che rispondere con un’altra domanda. O così almeno sembra indicare David Lynch – su cui torneremo con più completezza – dall’interno della Black Lodge di Twin Peaks: The Return, sostenendo però fatalmente il peso di un’intuizione che sembra rivolgersi a tutta la storia del cinema. Il contrario di un espediente, questa domanda è piuttosto un tracciante in grado di ricapitolare quel grumo esplosivo fatto di desiderio incubo memoria identità e fragile posizionarsi dell’idea stessa di realtà che in un modo o nell’altro fonda qualsiasi ricognizione singola e collettiva del e sul filmare.

Non è un caso dunque che alla questione ci si arrivi da più direzioni e in molti casi appaiati sul traguardo. Pattuglie sperdute di corridori di fondo che nell’atletica visionaria dello spazio-tempo riconoscono la pura possibilità dell’immagine. Hong Sang-soo, prima di tutto (e solo per restare a questo numero, inclinandoci spericolatamente, si allungano sul fotofinish Abel Ferrara, Francesco Totti, Walter Benjamin, Philippe Garrel…). Facile partire dal titolo, The Day After, ulteriore sintesi del problema (senza contare altri giorni dopo che lo diramano: Hong, con On the Beach at Night Alone e Claire’s Camera, è al terzo film in un anno). Il giorno dopo è concetto che unisce variazione e ripetizione al punto da incrinare dall’interno, mentre scorre, il giorno prima stesso, in una idea di polverizzazione del presente che in realtà è la polveriera necessaria a condurci fra i marosi bellissimi e paurosi del Nulla che sempre ci compete. Un piccolo editore e scrittore e la sua giovane dipendente che è la sostituta della dipendente precedente che era l’amante che sostituiva la moglie e che ora ritorna dando vita a un abisso temporale femminilmente triforcuto (era una e trina anche la Isabelle Huppert di In Another Country). Piega dopo piega e bacio rubato dopo bacio rubato, il ricordo si confonde e implode nel nugolo frusciante di misteriosi (falsi?) flash-back, e l’ultima donna, che era la prima, diverrà materia insieme incandescente e malinconica di una cecità irimediabile. Lei riappare, irriconscibile.

sang -soo FP08In questo Hong Sang-soo è uno dei più grandi cineasti viventi. Nella doppia corsia di cose girate in fretta e senza sceneggiatura (solo bigliettini consegnati alle attrici e agli attori la mattina sul set dopo una notte di lavoro insonne, solo idee e bagliori che attendono fiduciosamente la fragile linea narrativa che il destino prima ancora del filmmaker avrà congegnato per loro) e la stupefacente complessità del risultato, è come se filmasse sempre il regista al lavoro, il modo in cui semplicemente si sognano connessioni e fratture passate e future. Tutti i suoi film sono il racconto di come il cinema sia sempre un giorno dopo, qualcosa di fluttuante nel tempo (che non esiste), in bilico tra sviste equivoci e memorie incerte. Non a caso scambiato per uno che parte sempre dal fattore autobiografico, mentre in realtà, conscio di come tutte le autobiografie siano immaginarie, Hong invece fa film sulla possibilità che finalmente le immagini sfuggano all’autoanalisi (cosa che comprende anche l’ironico inserimento nel film stesso della sua auto-filmcritica, il che, in un ultimo sberleffo, vorrebbe rendere impossibile anche lo scriverne e fare del cineasta il critico di se stesso, come nella storia del cinema - con la stessa lucida progettualità insieme a lungo termine e ossessionata dall’accumulo di variazioni - è successo col solo Claude Chabrol).

Da qui la commistione unica di levità surrealista e terribile malinconia. Su cui scorre giustamente un fiume alcolico, che non annebbia certo la vista, ma serve a spalleggiare lo stato di alterazione che sempre sostanzia l’immagine (di Hong). Solitaria e claudicante, disarmata e recalcitrante, conversazione infinita di progetti letterari minimi e progetti di grandi film, sedotta dalla bellezza della deriva e colpita al cuore dall’evidenza del non riuscire più a vedersi né a sentirsi nonostante il fiume di parole e l’eterno ritorno negli stessi bar, negli stessi ristoranti, nelle stesse stanze, negli stessi letti, sulle stesse labbra e sugli stessi volti. Una ronde dove l’indifferenza è alla base della diversità e dove c’è un piacere segreto e assoluto per il movimento e la sua vertigine. Non è facile trovare oggi un cineasta altrettanto fiducioso nello sfilacciarsi del cinema invece che nella sua supposta (e sempre negata dai fatti) potenza. Fiducioso che le cose si mettano in moto non quando si danno a vedere, ma quando letteralmente cessano di esistere e il nulla coincide con la sublime risorsa dell’invisibile.

Non è dunque solo un tempo elastico e dislocato quello di The Day After (e dove il bianco e nero, couadiuvato dal bianco ulteriore di lunghe nevicate notturne, è ancora, come per Garrel, un affondo prima di tutto amoroso), ma il varco che si spalanca su una forma di indeterminazione tanto abissale quanto fisica, dura. La materia dell’amore è d’altronde materia che brucia e gli amanti i sopravvissuti all’incendio. Hong non ne esclude la verifica incerta nei suoi tipici lunghi monologhi, qui sensibilmente più filosofici, continuamente richiesti di spiegazioni su cos’è la realtà e, una volta appuratane l’eterna illusione, fino a chiedersi perché si vive. Il finale con Kim Minhee (musa flagrante quant’altre mai), dopo l’ultimo episodio di cecità (il suo datore di lavoro, il giorno dopo, letteralmente non la riconosce) sola nel taxi che guarda dal finestrino e la neve che cade la illumina con una luce misteriosa, segna di nuovo la possibile risposta con la forma magnificamente in distorsione della domanda. 

 

 

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