"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

BARBARIC CINEMA (3) – Good Time (Ben e Joshua Safdie)

Thursday, 20 July 2017 12:12

Arturo Lima

Le nostre rivoluzioni

 

Ciò che rende i fratelli Safdie dei detective selvaggi è esattamente ciò che li allontana dall’empireo cui li si vorrebbe avvicinare. Hill, Scorsese, Mann (Friedkin invece non è stato nominato)… È merito e demerito dei Safdie non capirli e non averli capiti, ponendosi sul piano scivolosissimo e comune a molti oggi del ci siamo noi e basta, cioè le nostre ossessioni, le nostre rivoluzioni. Il punto è però che, molto più di altri, questa forma barbarica di comprensione e di accesso alle visioni altrui o che precedono, i Safdie provano davvero a depurarla e letteralmente a coniarla come fatto proprio e in sé. Una sorta di cinema totale, autistico tanto quanto uno dei due protagonisti. Il cui autismo ulteriore è anche essere uno dei due registi, e basterebbe leggere le sue dichiarazioni quasi ottuse e, anche qui, quanto più vi si riferiscono tanto più ottusamente estranee a qualsivoglia metodo o variazione da actor’s studio, che raccontano questa immersione estrema del regista nel personaggio, per toccarne con mano testardaggine e ingenuità (a proposito, Faulkner?). Non cinema epigono ma proprio cinema in maschera, mascherato da quell’action fisico americano che, qui sí, hanno il merito, pur nella maniera che perseguono e nel superamento che agognano, di idolatrare.

Lo stesso uso della macchina è maschera pura, la cinepresa come forma di violento corpo a corpo strisciato per le strade come combustibile usa se stessa per mimetizzarsi col progetto unico attore-velocità che evidentemente a un certo punto della loro vita deve averli segnati (gli anni Settanta e ciò che ne consegue..). Voglio fare quella cosa là e basta. Quello che però va dato atto è che i Safdie tentano uno spostamento personalissimo (bisogna vedere quanto consciamente, perché il cinema è spesso in grado, una volta innescato, di darsi forma e teoria tanto proprie quanto propriamente celibi) di tutta questa pressione immane di cui caricano l’immagine, direttamente sull’occhio dello spettatore, ma chiaramente invitandolo a guardare senza identificarsi, in modo che le linee di forza vertiginose che attraversano il film siano anche la misurazione di una distanza ineliminabile. Impattano continuamente e distruttivamente con la messa in scena e mentre lo fanno si annullano, compiono una giravolta mortale alle spalle di chi guarda e lo spingono giù nell’abisso, al centro della scena, tenendolo però per i capelli e impedendo la caduta. E allora anche Robert Pattinson, mostruosamente bravo, diventa pura illusione, l’illusione dell’attore che crede davvero di aver trovato il metodo, mentre è solo parte del cortocircuito ed è comunque costretto a soccombere alla sceneggiatura. Per essere chiari: Michael Mann, che scrive certosinamente le sue storie, le vede poi colare a picco, ma a quel punto sta già danzando sui bordi incommensurabili di movimenti mai visti da occhio umano; i Safdie, che vogliono solo danzare e farsi strapazzare dal movimento ossesso della macchina, si ritrovano continuamente alle prese con le suture dell’intreccio, mentre il film grida gioioso solo quando corre da un punto all’altro (a dire il vero, la trovata dello scambio di persona, per quanto scritta, è un espediente drammatico che funziona al contrario come tentativo di sabotare la scrittura stessa debordandola sul film in modo da riazionarlo incessantemente).

Un tessuto però c’è, altrettanto rischiosamente al limite. La colonna sonora (è il caso di dire colonna). Non importa che siano gli incredibili Oneohtrix Point Never (alias Daniel Lopatin e Iggy Pop), importa che non vi sia soluzione di continuità, movimento che si aggiunge a movimento, sfruttando per di più la metropoli in senso operistico e riunendo in un sol colpo fotografia 35mm, montaggio, widescreen in un’unica grande performances tanto fluida quanto irregolare e sussultante. In fondo c’è qualcosa di tragico nei Safdie, nella loro fiducia che si possa essere potenti con le immagini, mentre anche i loro personaggi non faranno altro che venire braccati e ammazzati come topi (il regista/attore autistico infine internato).

Il problema per giovani cineasti di questo tipo è quanto passerà prima di restare fagocitati dalle aspettative di cui vengono caricati, visto che dal punto di vista critico sono già facilmente divorabili dal solito elenco di banalità e riconoscibilità di quando ci si mette a scrivere di cinema. Aggettivi, soprattutto: adrenalinico, rocambolesco, plastico, fiume in piena, ribelle, lampeggiante, caotico, febbricitante (e gli altri che li precedono in questo medesimo intervento). C’è da sperare se ne fottano e che abbiano fatto questo come il precedente film (più imperfetto e per questo più interessante Heaven Knows What) per stare male, per farsi stare male dalla macchina che in fondo (e per fortuna) ancora non controllano.

 

 

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