"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Interruption (Yorgos Zois)

Tuesday, 23 February 2016 10:00

Quel che vediamo è reale?

Michele Sardone

Uno spettacolo teatrale che mette in scena l’Orestea viene interrotto dall’irruzione sul palco di alcune figure vestite di nero: sono forse le Erinni che ossessionano Oreste? O dei terroristi che vogliono mettere in scena il loro spettacolo? Gli attori restano imprigionati in un elemento di scena, un cubo di vetro insonorizzato; una delle figure, un giovane uomo, prende la parola e presenta il suo gruppo come il Coro: da quel momento assumerà il ruolo di regista, e altri attori, dei volontari fra il pubblico, porteranno a termine la tragedia.

Questo l’inizio di Interruption, primo lungometraggio del greco Yorgos Zois, il cui obiettivo dichiarato era di estendere nel film la percezione di incredulità che alcuni spettatori pare abbiano avuto per qualche istante dinanzi a veri atti terroristici avvenuti in teatro, la percezione cioè che anche l’attentato facesse parte dello spettacolo.

 

Man mano che la visione prosegue, una strana immedesimazione si insinua: non ci identifichiamo nei volti in primo piano, un po’ impacciati, dei vari attori improvvisati, né in quelli freddi e determinati del Coro; ci accorgiamo che il nostro coinvolgimento è differente, e finiamo per riconoscerci nei volti opachi e indistinti del pubblico in platea. Ad essere in oggetto è proprio il nostro sguardo di spettatori inermi e impotenti dinanzi allo spettacolo del terrore cui assistiamo quotidianamente attraverso i media. Uno spettacolo che si mostra ogni volta clamoroso e insieme sempre identico a se stesso: e la sconsolata impotenza a far nulla di noi spettatori si ritrova ad essere speculare alla distaccata constatazione che nulla realmente accade. La caducità dell’evento spettacolare o spettacolarizzato, sempre pronto a farsi sostituire da un altro, restringe il tempo alla durata del clamore, mentre lo spazio si riduce al nostro punto di vista sull’evento stesso. Tutto si dà come flusso di immagini indistinte, distanti e separate da noi, fino a farci chiedere: “quel che vediamo è reale?”.

 

Ecco allora il tentativo di Zois: interrompere il flusso immaginale, ridare spazio e tempo all’azione, perché si possa avere la percezione che finalmente accada qualcosa. Zois cerca quanto più possibile di far coincidere la durata della vicenda rappresentata con la durata del film stesso, come avviene in molte delle tragedie classiche greche; e il teatro diventa così il luogo ideale per dare estensione e spazio a un’azione perché si compia. Ma l’azione scelta deve essere allora terribile, estrema, tragica appunto, fino ad arrivare al sacrificio di chi la compie.

 

Sarà sufficiente per risvegliarci dal nostro torpore di passivi spettatori? Non è un caso che lo spunto della tragedia inscenata venga dall’Orestea, in cui per la prima volta è il popolo che assiste ad essere chiamato a prendere una decisione attraverso il voto democratico. Viene facile allora pensare che tutto il film si possa risolvere in una chiamata a responsabilizzarci, ad alzarci dalle nostre poltrone e diventare noi attori in scena, e che la catarsi finale non ci purifichi, ma al contrario ci contamini: siamo tutti coinvolti, anche solo con la nostra omissione.
Ma non si può così eludere la banale obiezione che Interruption non sia altro che un film, e che quindi anche l’azione che viene rappresentata come vera è mera finzione: la rappresentazione teatrale è stata interrotta solo da un’altra rappresentazione spettacolare, solo un po' più verosimile. Il rischio è quindi di perdersi nel gioco di specchi fra le finzioni, ricadere nell’incantesimo della visione.

 

Oppure possiamo portare all’estremo la provocazione di Zois, e vedere in un’immagine non più il segno di una rappresentazione che non ci appartiene, ma il riflesso di uno specchio oscuro, come se l’immagine fosse un buco nero che attrae a sé chi la guarda, fino a perdersi dentro di essa, finché ognuno di noi diventi figura, fantasma, macchia opaca nel nero: e allora la domanda che ci poniamo dinanzi allo schermo non è più “quel che vediamo è reale?”, piuttosto “quanto siamo reali noi?”.

 

 

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