"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Ecco un film con i caratteri dell’insopportabilità. Ambizioso, sfrontato, megalomane. Brady Corbet, che ha recitato finora per una sfilza di cattivi maestri (Haneke e Von Trier dovrebbero bastare, ma si fa notare la sua presenza nel peggior film di Mia Hansen-Løve finora, Eden), non si fa pregare: Sartre, Hitler - o chi per lui - e, udite udite, Bresson, Pialat, Olmi, Kubrick: e il bello e insopportabile è che potrebbe pure avere ragione. Fa parte dei nuovi ossessi del controllo e del ripotenziamento pellicolare (70 e 35mm), Paul Thomas Anderson il capostipite, e fa il paio con l’altro debuttante 2015 Laszlo Némes, il quale però salta l’ostacolo – le origini dei fascismi – ed è già al punto di non ritorno, Auschwitz, così che sembra addirittura difficile immaginarlo a un secondo film, mentre Corbet, più baldanzoso, ne potrebbe avere pronti subito altri dieci, è evidente, non ce ne libereremo più (vorrei per ora non mettere in questa lista Miguel Gomes, il cui desiderio di smisuratezza, a detta di molti fallimentare, ha in questo eventuale fallimento la sua salvezza; Tarantino? Lui è diverso, fa cinema). Stutturatissimi, pochissimo avventati, molto cinici. Ovvio che i loro personaggi siano irrimediabilmente affetti da megalomania e che il film si pronunci a sua volta a favore di un cinema che crede talmente nel cinema (o, peggio, di esserlo) da insistere ciecamente sulla potenza dello sguardo e sulla sua imposizione (anche nel contenuto) allo spettatore. Il problema però, come si anticipava sopra, è che tutta questa claustrofobica certezza sui limiti dell’immagine, è purtuttavia costellata di ragionevoli zone d’ombra, di brevi incrinature nel sistema che, lavorando al suo inconscio depotenziamento, fanno ancora sperare in una possibilità di cinema. Soprattutto, il continuo rilancio fra aggrovigliarsi oscuro e non detto della Storia e il sottrarsi opaco della tela di luce che avvolge il film (senza dimenticare il cupo tocco di minaccioso ulteriore riverbero della musica di Scott Walker, che tanto ha ispirato anche David Bowie), dà invece l’idea di un’ossessione in fondo estranea alla sua stessa progettualità, e pronta invece a destinazioni meno precostituite e imprevedibili. E laddove vengono raggiunti inenarrabili massimi di immoralità filmica (degni degli indegni carrelli segnalati per sempre dal già compianto Rivette) – è il caso dello stacco sul capezzolo della giovane istitutrice che sporge dalla camicetta bianca trasparente e che, così tagliato, dovrebbe significare le già ben mature perversioni del giovanotto futuro leader assetato di sangue – ebbene, sono talmente inenarrabili da indugiare, a loro insaputa, sul loro oltrepassamento in una zona vicina al celibato assoluto, una zona bianca come una mammella turgida. Tutto il resto è altrettanto manipolatorio (le turbe incestuose, gli edipi galoppanti, le umiliazioni religiose, le metafore in forma di favola) e altrettanto così perversamente sicuro della propria matematica, da richiedere forse da parte nostra l’indulgenza necessaria ad attendere i prossimi fatidici dieci film.