"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Bitter Money (Wang Bing)

Monday, 21 November 2016 10:13

Fughe senza evasione

Naked

Andando alla deriva, intrappolato nella rete, sulle tracce di Bitter Money alla ricerca di un naufragio impossibile mi colpisce l’esatta distanza temporale (16/2-16/9) tra i due articoli di Erik Negro su Cinelapsus dedicati agli ultimi “tasselli” dell’opera di Wang Bing. Le due pagine sono praticamente identiche, autori (del film e del testo), date, “luci verdi” nella stessa posizione, se lo schermo nasconde le foto in testa (che hanno comunque entrambe per soggetto giovani donne, ma mentre la ragazza di Ta’ang ha lo sguardo dritto in macchina che rimanda il fuoco alle sue spalle le due cuginette dello Yunnan hanno gli occhi chiusi dalla stanchezza), le uniche differenze sono il titolo del film e il mese in cui è stato postato lo scritto. Questa curiosa quanto effimera osservazione non mi appare una pura casualità (già non è per un caso che Wang Bing abbia presentato un film al festival di Berlino e uno a Venezia pochi mesi dopo), ma piuttosto le cifre numeriche sembrano segni che rimandano a una struttura più o meno nascosta nel cinema del filmmaker cinese. C’è una coesione evidente più che un’ottusa coerenza tra le diverse opere: sequenza dopo sequenza, film dopo film Wang Bing ci mostra un mondo a forma di scatole cinesi, in cui ci muoviamo in flussi tutti contenuti e separati. La variabile tra un pezzo e un altro può essere temporale (quindi inesistente), quantitativa (durata, soggetti, misure) ma la struttura e le sovrastrutture che la determinano hanno la stessa forma, chiusa, buia e sbarrata. Quando dice “L’inquadratura non è fondamentale. Quello che conta, nell’immagine, è chiedersi che cos’è questa caraffa. L’oggetto che vediamo sull’immagine, l’oggetto in sé, la sua vita. Non si tratta di osservare il bordo ma l’oggetto.” ci ricorda che nei suoi film non c’è inquadratura perchè non c’è un fuori campo che ci può salvare, manca il cielo dei finali, anche i più tragici, di Rossellini. Il mondo fuori dal tugurio dove vivono le Tre sorelle è lo stesso tugurio ma più grande (lo stesso vale per Father and Sons ma anche per il Distretto di Tiexi) il pezzo di città di Bitter Money rimanda nella struttura dei palazzi e delle strade al manicomio di Till madness: la forma (come la sostanza) è sempre quella del campo di concentramento. Nessuno dei film ha una fine né un confine, Wang Bing sta lavorando al seguito di Bitter Money come di Father and Sons ma potrebbe allo stesso modo continuare a seguire i bambini di Ta’ang, vedrem(m)o mutare forse il filmante, probabilmente i filmati, ma non “l’inquadratura”, siamo già tutti inquadrati.

Le meccaniche del capitalismo e dell’autorità sono il quadro in cui si muovono le anime perse filmate dallo sguardo empatico del filmmaker. I film di Wang Bing sono mappe del vuoto che c’è tra una scatola e quella più grande che la contiene, è in questo vuoto costretto e delimitato che si muovono gli uomini e le cose, è qui che si forma l’immagine che segna l’assoluta equidistanza tra chi è dentro e chi è fuori annullando per un attimo la separazione a cui ci costringe lo spettacolo.

 

Se vedessimo nel cinema di Wang Bing una mappatura della povertà e della violenza cinese lo ridurremmo all’ennesimo intellettuale che scende tra i dannati della Terra con la speranza di salvarsi l’anima e pulire le nostre coscienze. In Bitter Money si accumulano e sovrimprimono mappe su mappe; le disegnano i viaggi migratori dei poveri dello Yunnan che vanno nel nord-est, i flussi commerciali delle stoffe che producono, le strade e i palazzi in cui vivono ammassati, gli incroci dei sentimenti che ogni tanto affiorano nella normalità di rapporti bestiali. Sono gli stessi volti che abbiamo visto nei film precedenti, ci sono le tre sorelle e parti del petrolio di Crude Oil, conosciamo i villaggi da cui provengono e i manicomi e le carceri in cui finiranno. In Bitter Money cuciono incessantemente mappe, pezzi di stoffa appunto secondo l’uso antico della parola che ancora si conserva in parti del sud Italia, sognando che il sangue e il sudore che versano gli indichi la via al paradiso che nella loro visione è sinonimo di soldi. Wang Bing segue questi uomini donne cercando con loro, sempre in fuga da povertà e violenza ma carichi di speranze e di sogni come sono gli sfruttati di tutto il mondo, una via d’uscita da questo carcere a cielo chiuso (in senso letterale non letterario). Film dopo film si accumulano evasioni fallite, film dopo film si riaccende il desiderio di libertà. È questa la sceneggiatura che tesse Wang Bing e il premio alla miglior sceneggiatura di Venezia è un atto critico pari alla forza del suo cinema.

 

 

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