"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
C’era una volta la questione del rapporto fra realtà e sua messa in scena, fra enormità del reale e praticabilità fiction del documento, fra visibile e invisibile. In discussione erano due imperfezioni: la realtà stessa e l’occhio umano: l’umano e il disumano. C’erano, conseguenti, i concetti di memoria, testimonianza, storia. C’era (come si sa, ma è sempre meglio ricordarlo) prima di Auschwitz e dopo Auschwitz.
È probabile che nel luogo dove più crudamente si è posto il problema del rapporto fra immagine e verità, vi sia un indice storico (nel senso benjaminiano) che permetta di far luce sull’oscura matassa del presente, e viceversa qualcosa di troppo oscuro allora che potrebbe risultarlo un po’ meno adesso.
È quello che fa László Nemes, ungherese classe 1977, col suo primo lungometraggio Son of Saul (Saul Fia, 2015). Nemes prende di petto la questione mettendo in scena, proprio immaginando, uno dei più turpi, forse il più turpe, fra i crimini nazisti, ossia la creazione del Sonderkommando, squadra di ebrei addetta a portare altri ebrei direttamente nelle camere a gas, alla pulizia di quel che restava dei loro corpi, al trasporto delle carcasse nei crematori e pronta, a sua volta, a essere gasata e sostituita ogni quattro mesi. Nemes sceglie l’estate del 1944, quando ad Auschwitz si dovette ‘far fronte’ all’arrivo di 450.000 ebrei ungheresi ammazzandoli il più velocemente possibile, e quando alcuni membri del Sonderkommando ebbero il coraggio di scattare delle foto del genocidio e di farle arrivare alla resistenza polacca e, infine, di organizzare una rivolta.
La prima immagine è una sfocatura del famigerato bosco di betulle antistante le camere della morte. Dopo la messa a fuoco, appare Saul Aslander, un membro del Sonderkommando, intento a fare quello che fa tutti i giorni, portare a morire un convoglio di nuovi arrivati. Da qui, togliendoci il fiato, si diramano una lunga serie di piani sequenza che ne seguono le operazioni attorno ai morti, l’incredibile evento di un ragazzo sopravvissuto alla camera a gas (subito strangolato dal medico di turno), l’ossessione di Saul di seppellirlo secondo il rituale kaddish, i rischi enormi che corre, la sua partecipazione agli scatti delle famose fotografie e alla rivolta finale.
Nemes si posiziona alle spalle del suo personaggio, si attacca alla nuca di Saul e lo tallona nel suo disumano andirivieni nei meandri del dispositivo di morte. Tutto quello che vediamo è un frammento (spesso fuori fuoco), scorci di corpi nudi accatastati o trascinati via, violenze di ogni tipo, i prigionieri al lavoro, l’arrivo continuo di nuovi deportati. Fuori campo il terribile manto sonoro di cui tante volte abbiamo letto (la babele di lingue yiddish ungherese polacco greco e gli ordini continuamente urlati in tedesco). Il girone infernale di Auschwitz, perfettamente ricostruito, ci viene tuttavia restituito per irruzioni, lampi, squarci che si imprimono come ferite. Nemes insiste su ciò che nell’immagine, e dunque nell’occhio che osserva, è inadeguato. La questione è capire in quale punto è in grado di ritrarsi dalla sua stessa assuefazione e addirittura trovare la forza per ritrarla (non solo foto, i membri del Sonderkommando scrissero e riscrissero diari che nascosero fra le ceneri dei morti). Nemes allora interroga il rapporto fra la forma stessa dell’occhio (attenzione, il film è girato in 35mm) e il processo di selezione intrinseco all’immagine, per cui non tutto può essere visto e mostrato, ma proprio su questo non si fonda l’atto del vedere (sto dicendo che nello statuto stesso del fondo del fondo più nero c’è una luce? Si, i nazisti, stupide bestie, non se lo immaginavano). È la doppia situazione visiva dei membri del Sonderkommando: resi ciechi, spogliati di tutto, anche dell’anima, gli viene chiesto di lavorare a cancellare le tracce dell’orrore cui partecipano. Può nascere uno sguardo dalla somma di due diversi accecamenti? Quel che il cinema può fare, sembra dire Nemes, è di usare la propria parzialità, e diremmo proprio, impotenza, per restituire quella condizione di spoliazione e di non-sapere che fondava il processo di disumanizzazione nazista.
Una versione più lunga e leggermente diversa di questo articolo è apparsa sulla rivista Alfabeta2 il 27 gennaio 2016 e si può trovare qui http://www.alfabeta2.it/2016/01/27/laszlo-nemes-limmagine-inadeguata/
In attesa, un giorno, di fare la necessaria ricognizione sulla factory bosniaca di Béla Tarr (e magari aggiungere capitoli alla sua cosiddetta filmografia interrotta), è il caso di soffermarsi su questa sua studentessa giapponese, Kaori Oda, e su una sua visita in miniera. In principio fu Kafka. Secondo il compito assegnatole dal professor Béla, un possibile adattamento da Il cavaliere del secchio (e si capisce, non sembra forse questo proprio l’inizio di un film di Béla Tarr? “Tutto il carbone consumato; vuoto il secchio; assurda la paletta; la stufa che manda freddo; la stanza gonfia di gelo; davanti alla finestra alberi irrigiditi dalla brina; il cielo uno scudo d’argento contro colui che gli chiede soccorso”). Così Kaori, che da bambina sognava di giocare a pallacanestro e che un brutto incidente al ginocchio ha magicamente deviato verso il cinema, prende il suo secchio particolare, la camera, e scende in miniera. Qui tuttavia non trova Kafka, ma un dedalo di abissi tunnel macchine spazi e uomini, che la spingono a ripensare la sua presenza in quelle profondità in modo che il documento possa dispiegarsi a partire da una base non così strettamente letteraria (e Béla, che vede il girato, approva). Eppure di Kafka mantiene il senso unico del luogo, l’ora agghiacciante di un singolo luogo preso nel suo tempo e nella sua illusione: lunghi piani sequenza, un appostamento gentile e determinato insieme, per nulla impaurito dal buio, gli operai stessi pensati come fasci di luce, macchinari che si fondono con le carrellate mentre fondono il carbone e affondano ogni cosa, compresi i fuori fuoco, parte fondante dell’ipnotica compressione sotterranea. E ovviamente nessun intento sociale, perchè è già tutto nel parallelo gioco dei volumi dato dallo spazio e dal distribuirsi delle ombre per tagli dissezioni e autentici buchi neri. La verità è che Kaori Oda, con la semplice decisione di filmare tutto da sola con la sua Canon, e quindi di appoggiarsi al puro sound/recording, aiutata da una sola fonte di luce proveniente dal suo caschetto, ottiene una sorta di tutt’uno occhio/macchina/spazio che è in sé contemporanea riflessione politica sul lavoro e sulla posizione del cineasta tout court. È appassionante inoltre vedere come tutto ciò sia al tempo stesso a uno stato larvale, di intuizione pura, riportando bene il difficile rapporto che c’è oggi fra facile immediatezza del filmare (grazie al digitale) e desiderio di non rinunciare alla complessità del pensiero, seppure appena intravisto (e infatti è la regista stessa che, dopo aver precisato che ancora non sa bene cosa fare e che sta solo esplorando, non fatica però a indicare come punti di riferimento Pedro Costa, Wang Bing, Raymond Depardon, Frederick Wiseman…). L’epilogo di Kafka è ancora una volta perfetto: “La mia cavalcata non ha più senso, perciò sono smontato e porto il secchio su una spalla”.
Ancora una volta è Jean-Marie Straub, giustamente duro e giustamente caustico, a ricordarci che dopo l’era della riproducibilità tecnica, l’unico modo per avvicinare ciò che chiamiamo arte è nella non-riproducibilità (Renoir, sempre Renoir), cioè forse in uno spazio, tanto resistente quanto misterioso che si installa fra parola e immagine e il cui nome è lingua. Nuovo titolo: l’opera d’arte nell’epoca della sua ricerca di una lingua. Lingua significa qualcosa impossibile a dirsi diversamente se non come tale, la quale anzi, se fosse o se ambisse a diventare un linguaggio, se avesse intenzioni rappresentative (o, peggio, artistiche), sarebbe una lingua (e infatti oggi lo è sempre più) già del tutto compromessa.
Ecco allora le forze in campo: sceneggiatura come colata grafica, l’immagine come partitura della partitura, memoria puntigliosa del lavoro quotidiano, il cineasta che diventa pittore e musicista, il film come campo di battaglia che include due, tre, quattro versioni del film stesso (perché “Il n’y a pas une meilleure prise”). Oppure, semplicemente, il film installerà parte di sé. Come? Chiedendo a uno come Amir Naderi, che di scenari multiversi se ne intende, di andare a rifilmare ciò che rimane dell’ultimo rullo di una copia del MoMA di Lezioni di storia (con il dialogo da Gli affari del Signor Giulio Cesare di Bertold Brecht, quello dove risulta chiara non solo la natura truffaldina delle italiane genti, ma forse proprio la truffa insita, o il rischio di tradimento connesso all’intenzione artistica in sé). Dove? In una casupola, che sembra una cosa a metà fra una cappella e una cabina di proiezione, posta all’entrata del padiglione italiano della Biennale Arte 2015, aperta da ogni lato (perché in una sala cinematografica si può entrare, ma anche uscire), e in cui al loop del rullo in fin di vita o vivo per miracolo, fra salti della pellicola e definitivi scioglimenti del colore, risponde la recinzione sonora dei materiali (il dialogo brechtiano nell’originale tedesco) e quella visiva delle riproduzioni del testo lavorato alla loro maniera da Straub e Huillet.
Il problema, è chiaro, di questo Omaggio all’arte italiana! (prodotto dalla neonata Zomia di Donatello Fumarola e Alberto Momo insieme a Belva Film e Atelier Impopulaire) non è disquisire su cosa sia arte e cosa no, ma di ricostruire la nervatura del lavoro materiale e testuale del cineasta (compresa la successiva possibile degradazione, la quale ha a sua volta a che fare col supporto e col supporto del pubblico), ricostruirla fino a ridarne la cadenza profonda, conquistandogli quello spazio che, d’altra parte, ne è il carattere.
Allora, questo spazio, è ancora lo spazio del testo, o qualcosa di completamente inedito? E cosa rimane del cinema? Può addirittura partecipare al rischio atmosferico connaturato al filmare stesso? Può essere ancora come la nuvola, come il colpo di vento, come il sole? Può essere il colpo di dadi? Non è in fondo il testo, una volta, per così dire, estratto e ridotto all’essenziale, il luogo verso cui si deve ritornare, certo molto cambiati, ma sempre tesi al reperimento della materia all’origine? Come diceva Danièle Huillet: “È un dettaglio… ma non ci sono dettagli!”.
Il corpo dell’immagine. Ecco qualcosa che tutti cercano (o si immaginano, o sognano), ma che sfugge a qualsiasi defiinizione non supportata da esempi specifici. Eccone ben tre. Corti e cortissimi. Che, anzi, proprio nella forma breve individuano il piano inclinato in cui far convivere quel movimento compresso ed elastico, imploso e deflagrato che forse costituisce il misterioso corpo dell’immagine.
Insomma, si tratta di tracciare i confini di una nervatura invisibile, convogliare l’elettricità di un mutamento sussultorio e continuo, esporsi a una sovraesposizione accecante, ma allo stesso tempo tentare l’inserimento nella piega che scivola fra due ombre, in cerca della zona opaca, del margine insepolto dell’immagine.
Filmare l’infilmabile, ecco di che si tratta. Curiosamente, per tutti e tre i film, il punto di partenza di questa operazione impossibile restano i corpi veri e propri, un bilico necessario al ritrovamento di fisicità, flagranza, possessione. Per questo, come in Yolo di Ben Russell, quel che si pensa essere il proprio film, si scopre essere opera collettiva (filmata nel lontano Sudafrica con il collettivo Eat My Dust), un mash-up capovolto, dettaglio di un dettaglio filmato da altri e visto all’incontrario, a testa in giù. Il cielo al posto dei volti, facce al posto delle nuvole, dialoghi spezzati presi alla fine e in cerca dell’inizio, il centro celato di questa regione sconosciuta (ancora e sempre Michael Snow docet). E tutto come se fosse la prima e ultima volta, l’immagine dipanata in filigrana e insieme distorta, deragliata, un lampo filmato da uno, nessuno e centomila cineasti. “Oh humanity, You Only Live Once!”, così chiosa Russell.
Se poi i corpi sono nudi, allora l’astrazione avverrà sul corpo stesso della pellicola, lavorata in modo che perforazioni e penetrazioni, pelle nuda e pelle di celluloide, diventino un corpo unico, altrettanto insondabile, sonoro, eccitato e sovraesposto frame by frame, incollato e strappato, appunto surrealisticamente squisito (e qui Maya Deren docet). The Exquisite Corpus monta, ma sarebbe meglio dire cerca un ritmo, una sequenza inconsueta, nelle variazioni hard e soft core o di semplici film nudisti di cui viene estratto e manipolato il footage. Procede per immersione, comincia con un semplice film nudista e lentamente si avvolge su se stesso, fluido e vertiginoso insieme, riavvolto nella sua stessa grana, fino a filmare una sorta di erotismo della pellicola più ancora che i lampeggiamenti hard che si sovrappongono con veemenza fino all’accecamento (non so se Tscherkassky conosce Piero Bargellini, ma il riferimento non può non essere il capolavoro Trasferimento di modulazione).
Allora, cos’è più vero, il corpo umano o il corpo dell’immagine? Everson con It Seems to Hang On si avvicina al nucleo della questione facendo slittare il ritmo sovraeccitato e psicotico di due famosi serial killer (la cui storia è dunque vera) direttamente sulla struttura del film: singultante, asimmetrica, continuamente interrotta e raddoppiata, smarrita nell’ossessione, nella ripetizione, nel ghigno senza costrutto, rabbioso e impersonale. Loro uccidono, ma non vedono che così spazio e tempo prima si annullano e poi si incrinano, e alla fine non resta che un grido rivolto al vuoto. L’immagine è il suo stesso corpo separato, la ballata atonale di una spossessione.
Il set come luogo del delitto. Menzogna che, in quanto tale, introduce l’immagine alla verità, proposta però come ferita non rimarginabile. Falso movimento, anzi proprio falsificazione – attraverso procedure che slittano ambiguamente fra ironia e cinismo – dell’atto stesso del vedere.
Questo, fino a ieri, è stato Yorgos Lanthimos. Ora però The Lobster sembra voler spostare l’idea di realtà come primo livello dell’assurdo che ci circonda direttamente sul piano narrativo. Non è solo l’escamotage della voce fuori campo, talmente onnisciente, che, come si capirà poi, parla da un futuro non ben identificato, già slittato oltre l’ultima enigmatica inquadratura. Piuttosto è una sorta di inatteso romanticismo, di placida e avventurosa rifinitura del racconto, che offre libertà e insieme compattezza al vortice fatto di rabbia e aggressività e ironica cerebralità del nonsense cui è solito il regista greco.
In fondo The Lobster non è altro che una bellissima love story. Che tuttavia nasce in un mondo disseccato, depredato, prosciugato di sentimenti, dove l’amore o è costrizione sociale o è semplicemente vietato: in entrambi i casi la base fondante di uno stato di polizia reale e inconscio. Certo che è difficile credere al vero amore, soprattutto se si teorizza una basilare crudeltà dei rapporti umani, ma non è detto che per questo sia necessario ritirarsi in solitudine, o al contrario cacciarsi l’un l’altro fino a morire, o addirittura rinunciare a combattere e decidere di venire trasformati in un animale. Se ti sfregano il culo addosso tutte le mattine, è giusto che il tuo cazzo esploda. Se è vietato parlare d’amore, è tuttavia probabile che un bacio simulato si trasformi in vera danza di lingue.
Ma è davvero tutto così ambiguamente in autentico? La cosa affascinante, e tutt’ora misteriosa, del cinema di Lanthimos è che quanto più spinge sull’esibizione del falso, risultando talvolta anche a rischio di auto-falsificazione, tanto più risulta non programmatico e istintivo. Gli attori per esempio, famosi o meno che siano: è così evidente il modo in cui Lanthimos se ne tenga a distanza, in modo da ottenere dei corpi nella loro pura brutalità, non certo l’auto-analisi cosciente del personaggio (che di solito è dei brutti film).
Allo stesso modo, limitarsi banalmente a segnalare come caratteristiche dei suoi film, e di questo in particolare, bizzarria e tensione distopica (peraltro, come si è visto, del tutto ininfluenti anche rispetto al mero contenuto, veri e propri specchietti per le allodole per lobotomizzati da tappeti rossi e montées de marches), significa eludere quella sorta di selvaggio smarrimento che resta il punto filmico su cui si svolge la visione che Lanthimos ha del mondo: una terra colpita da cecità universale, che corre inebetita verso il vuoto, già metafora di se stessa, senza speranze. E dove l’immagine, giocando sul bordo di questa frattura insanabile, usa i corpi come mezzi estremi di una fuoriuscita possibile.