Magica combinazione
Simone Emiliani
Un road-movie con un’estetica vintage. Peter Farrelly (senza il fratello Bobby) verso gli anni ’80. In un decennio non attraversato dal suo/loro cinema. Apparentemente più controllato. In una strana, quasi sospettosa classicità nelle forme tradizionali della narrazione. Tratto da una storia vera, mostra il viaggio di un autista ex-buttafuori Tony Vallelonga e un pianista di talento Don Shirley che deve attraversare il paese per un suo tour. Tutto sospeso tra l’eccesso e la sottrazione già dal contrasto tra Viggo Mortensen, in un’altra mutazione cronenberghiana e Mahershala Ali, quasi una specie di spettro dopo Moonlight. In un cinema che si prende pause più lunghe rispetto al cinema di/dei Farrelly. Gli anni ’60 come potevano essere mostrati nel cinema statunitense di trent’anni fa. Quasi uno strano ibrido tra Norman Jewison, John Landis e John Hughes. Il contrasto bianco/nero di Una poltrona per due in sovrimpressione con Una pazza giornata di vacanza. Con le immagini della famiglia di Vallelonga, quasi riciclaggio di Stregata dalla luna. Ma Green Book è soprattutto un cinema di largo respiro. Capace di entrare nel ventre degli Stati Uniti. L’automobile come specchio del paese. Quasi altro sguardo, sovrapposto ma anche parallelo, in un cinema dove lo sguardo dei due protagonisti diventa già memoria. Le tracce della Storia prima dell’omicidio di John Kennedy. Ma anche squarci intimi sul proprio privato che si apre a un finale di prevedibile e grande intensità. Che rispetta quelle attese banali e grandiose della migliore recente commedia statunitense. Ma dove in questo attraversamento nelle forme del buddy movie, c’è un impeto politico che può apparire trattenuto e in realtà è impetuoso. Non c’è la rabbia contagiosa di Spike Lee di BlacKkKlansman. Al cinema di Farrelly non interessa costruirla con una musica incalzante che crea una sorta di sdoppiamento sensoriale tra quello che si sta vedendo e l’illusione impetuosa di deformare quell’immagine, di far saltare tutte le prospettive e mescolare i colori nel momento stesso in cui si sta guardando. Ed è determinante, per esempio, la scena nel ristorante di Birmingham, in Alabama, dove a Don viene impedito di cenare prima del concerto che deve tenere perché la sala è riservata solo ai bianchi. A quel punto Tony decide di far saltare l’esibizione che si terrà invece in un locale di afroamericani. Ancora Spike Lee. Dalle parti di Mo’ Better Blues. Senza scendere in una zona documentaristica. Quella scena diventa esplosiva proprio perché unisce elementi apparentemente semplici ma in magica combinazione: scrittura precisa, mai oppressiva (tra gli sceneggiatori c’è anche Nick Vallelonga, figlio di Tony assieme allo stesso Farrelly e Brian Hayes Currie), esibizione da film-concerto e soprattutto il piacere della narrazione. Esattamente quello che ha sempre attraversato il cinema dei Farrelly. Anche malgrado i suoi detrattori. Dove il demenziale diventava elemento futurista. Quasi di rottura. L’autista di Viggo Mortensen che copre ogni zona di vuoto con la parola è la reincarnazione di quello della limousine di Jim Carrey che la colmava con un’elastica fisicità in Scemo & più scemo, anche quello diretto solo da Peter. E quello dei Farrelly è sempre un cinema di viaggi nel cuore del cinema americano. Dal poliziotto dalla doppia identità con la ragazza arrestata nello strepitoso Io, me & Irene alla luna di miele burrascosa di Lo spaccacuori. Green Book è anche un cinema sulla ricerca della propria identità. Quella del pianista, che non appartiene alla comunità dei bianchi ma neanche a quella afro-americana che aveva ripudiato. Forse l’anima black di Jim Carrey. Quasi il suo opposto. Ma con gli stessi cromosomi di un corpo in grado di scindersi e moltiplicarsi.